LA CULTURA DI PACE E’ OGGI MINORITARIA di Guido Viale

 

 

 

La guerra non è fatta solo di armi, eserciti, fronti, distruzione e morte. Comporta anche militarizzazione della società, sospensione dello stato di diritto, cambio radicale di abitudini, milioni di profughi, comparsa di “quinte colonne” e, viva iddio, migliaia di disertori e disfattisti, amici della pace. Quanto basta per capire che siamo già in mezzo a una guerra mondiale, anche se, come dice il papa, “a pezzi”.

Questa guerra, o quel suo “pezzo che si svolge intorno al Mediterraneo, è difficile da riconoscere per l’indeterminatezza dei fronti, in continuo movimento, ma soprattutto degli schieramenti. Se il nemico è il terrorismo islamista e soprattutto l’Isis, che ne è il coagulo, chi combatte l’Isis e chi lo sostiene? A combatterlo sono Iran, Russia e Assad, tutti ancora sotto sanzione o embargo da parte di USA e UE; poi i peshmerga curdi, che sono truppe irregolari, ma soprattutto le milizie del Rojava e il Pkk, che la Turchia di Erdogan vuole distruggere, e Hezbollah, messa al bando da USA e UE, insieme al Pkk, come organizzazioni terroristiche. A sostenere e armare l’Isis, anche ora che fingono di combatterlo (ma non lo fanno), ci sono Arabia Saudita, il maggiore alleato degli Usa in Medioriente, e Turchia, membro strategico della Nato. D’altronde, ad armare l’Isis al suo esordio sono stati proprio gli Stati uniti, come avevano fatto con i talebani in Afghanistan. E se la Libia sta per diventare una propaggine dello stato islamico, lo dobbiamo a Usa, Francia, Italia e altri, che l’hanno fatta a pezzi senza pensare al dopo. Così l’Europa si ritrova in mezzo a una guerra senza fronti definiti e comincia a pagarne conseguenze mai messe in conto.

La posta maggiore di questa guerra sono i profughi: quelli che hanno varcato i confini dell’Unione europea, ma soprattutto i dieci milioni che stazionano ai suoi bordi: in Turchia, Siria, Iran, Libano, Egitto, Libia e Tunisia; in parte in fuga dalla guerra in Siria, in parte cacciati dalle dittature e dal degrado ambientale che l’Occidente sta imponendo nei loro paesi di origine. Respingerli significa restituirli a coloro che li hanno fatti fuggire, rimetterli in loro balìa; costringerli ad accettare il fatto che non hanno altro posto al mondo in cui stare; usare i naufragi come mezzi di dissuasione.
Oppure, come si è cercato di fare al vertice euro-africano di Malta, allestire e finanziare campi di detenzione nei paesi di transito, in quel deserto senza legge che ne ha già inghiottiti più del Mediterraneo; insomma dimostrare che l’Europa è peggio di loro. Ma respingerli vuol dire soprattutto farne il principale punto di forza di un fronte che non comprende solo l’Isis, le sue “province” vassalle ormai presenti in larga parte dell’Africa e i suoi sostenitori più o meno occulti; include anche una moltitudine di cittadini europei o di migranti già residenti in Europa che condividono con quei profughi cultura, nazione, comunità e spesso lingua, tribù e famiglia di origine; e che di fronte al cinismo e alla ferocia dei governi europei vengono sospinti verso una radicalizzazione che, in mancanza di prospettive politiche, si manifesta in una “islamizzazione” feroce e fasulla.
Un processo che non si arresta certo respingendo alle frontiere i profughi, che per le vicende che li hanno segnati sono per forza di cose messaggeri di pace.

Troppa poca attenzione è stata dedicata invece alle tante stragi, spesso altrettanto gravi di quella di Parigi, che costellano quasi ogni giorno i teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, ma anche Libano o Turchia. Non solo a quelle causate da bombardamenti scellerati delle potenze occidentali, ma anche quelle perpetrate dall’Isis e dai suoi sostenitori, di Stato e non, le cui vittime non sono solo yazidi e cristiani, ma soprattutto musulmani. “Si ammazzano tra di loro” viene da pensare a molti, come spesso si fa anche con i delitti di mafia. Ma questo pensiero, come quella disattenzione, sono segni inequivocabili del disprezzo in cui, senza neanche accorgercene, teniamo un’intera componente dell’umanità.
E’ di fronte a quel disprezzo che si formano le “quinte colonne” di giovani, in gran parte nati, cresciuti e “convertiti” in Europa, che poi seminano il terrore nella metropoli a costo e in sprezzo delle proprie come delle altrui vite; e che lo faranno in futuro sempre di più, perché i flussi di profughi e le cause che li determinano (guerre, dittature, miseria e degrado ambientale) non sono destinati a fermarsi, quali che siano le misure adottate per trasformare l’Europa in una fortezza (e quelle adottate o prospettate sono grottesche, se non fossero soprattutto tragiche e criminali).

Coloro che invocano un’altra guerra dell’Europa in Siria, in Libia, e fin nel profondo dell’Africa, resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. Ma in realtà vogliono che a quella ferocia verso l’esterno ne corrisponda un’altra, di genere solo per ora differente, verso l’interno: militarizzazione e disciplinamento della vita quotidiana, legittimazione e istituzionalizzazione del razzismo, della discriminazione e dell’arbitrio, rafforzamento delle gerarchie sociali, dissoluzione di ogni forma di solidarietà tra gli oppressi. Non hanno imparato nulla da ciò che la storia tragica dell’Europa avrebbe dovuto insegnarci.

Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la “fortezza Europa”, dunque, non è solo questione di umanità, condizione comunque irrinunciabile per la comune sopravvivenza. E’ anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra. Perché solo così si può promuovere diserzione e ripensamento anche tra le truppe di coloro che attentano alle nostre vite; e soprattutto ribellione tra la componente femminile delle loro compagini, che è la vera posta in gioco della loro guerra. Nei prossimi decenni i profughi saranno al centro sia del conflitto sociale e politico all’interno degli Stati membri dell’UE, sia del destino stesso dell’Unione, oggi divisa, come mai in passato, dato che ogni governo cerca di scaricare sugli altri il “peso” dell’accoglienza.

Eppure, fino alla crisi del 2008 l’UE assorbiva circa un milione di migranti ogni anno (e ne occorrerebbero ben 3 milioni all’anno per compensare il calo demografico). Ma perché, allora, l’arrivo di un milione di profughi è diventato improvvisamente una sciagura insostenibile? Perché da allora l’Europa ha messo in atto una politica di austerity, a lungo covata negli anni precedenti, finalizzata a smantellare tutti i presidi del lavoro e del sostegno sociale e a privatizzare a man bassa tutti i beni comuni e i servizi pubblici da cui il capitale si ripromette quei profitti che non riesce più a ricavare dalla produzione industriale. Ma quelle politiche, che non danno più né lavoro né redditi decenti a molti, né futuro a milioni di giovani, non possono certo concedere quelle stesse cose a profughi e migranti. Devono solo costringerli alla clandestinità, per pagarli pochissimo, ridurli in condizione servile, usarli come arma di ricatto verso i lavoratori europei per eroderne le conquiste.

Per combattere questa deriva occorrono non solo misure di accoglienza (canali umanitari per sottrarre i profughi ai rischi e allo sfruttamento degli “scafisti” di terra e di mare, e permessi di soggiorno incondizionati, che permettano di muoversi e lavorare in tutti i paesi dell’Unione); ma anche politiche di inclusione: insediamenti distribuiti per facilitare il contatto con le comunità locali, reti sociali di inserimento, accesso all’istruzione e ai sevizi, possibilità di organizzarsi per avere voce quando si decide il futuro dei loro paesi di origine. Ma soprattutto, lavoro: una cosa che un grande piano europeo di conversione ecologica diffusa, indispensabile per fare fronte ai cambiamenti climatici in corso e alternativo alle politiche di austerity, renderebbe comunque necessaria.
Ma per parlare di pace occorre che venga bloccata la vendita di armi di ogni tipo agli Stati da cui si riforniscono l’Isis e i suoi vassalli, che non le producono certo in proprio.

 

19 Novembre 2015

da “Il Manifesto”

2 commenti

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2 risposte a “LA CULTURA DI PACE E’ OGGI MINORITARIA di Guido Viale

  1. ernesto.sattaneo@alice.it

    Gent.m*,

    per scrupolo e correttezza ( … scusate … ma proprio ora … che si scrive …. pensa che avrebbe dovuto chiedervi … il consenso prima …. e ci si scusa … per questo …) communque si invia anche in allegato l’articolo.

    Ernesto Sattaneo – Milano

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    Oggetto: Finchè c’è guerra c’è speranza.

    Un punto di vista interessante. Dal sito Marxismo libertario. L’articolo di Claudio Geymonat del 17 novembre ( impaginato in “forma” diversa senza cambiare le parole [tranne Inghilterra sostituita con Regno Unito] ) che ha per titolo ARMI PER TUTTO, viene inviato, come file: finché c’è guerra c’è speranza. (il riferimento esplicito al film di Alberto Soldi è voluto)

    Ernesto Sattaneo

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    17 Novembre 2015 ARMI PER TUTTO di Claudio Geymonat L’Italia è fra i maggiori esportatori al mondo di armamenti. Moltissimi di questi finiscono a nazioni che poi combattiamo. Vediamo dove Terza guerra mondiale? Nuove forme di conflitto, striscianti e non dichiarate? Guerra del terrore? L’attuale contesto geopolitico si presta a infinite disamine, che stanno riempiendo palinsesti e colonne di giornali. Difficile districarsi fra matasse che coinvolgono religione e denaro, territori e odi atavici. Un fattore comune, un fil rouge si può però scorgere, e agguantandolo possiamo rilevare da dove arrivano tutte quelle bombe che entrano nelle nostre case dalle televisioni, e sempre di più anche vicino a noi, in mezzo a noi. I dati sono ufficiali, estratti dal rapporto annuale dell’Unione Europea sull’export di armi e dalle relazioni parlamentari del nostro paese: dal 2001 al 2011 l’Italia ha venduto armi, leggere e pesanti, equipaggiamenti e mezzi militari per un totale di 36,5 miliardi di euro, una bella fetta di mercato che non ha conosciuto la crisi economica che ha colpito il pianeta dal 2007 in poi. Anzi. In alcuni rami di questo mega settore ci sono riconosciuti una serie di primati: siamo il maggior esportatore mondiale di armi comuni, pistole, il 19,5 % di tutto il commercio, prodotte soprattutto nel bresciano, nel distretto della val Trompia. Beretta in questo ambito il nome più noto, ma non certo l’unico. In generale siamo fra i primi cinque produttori di armi al mondo, e sul podio fra gli esportatori, davanti a colossi come la Cina, che ci incalzano, ma a cui non vogliamo cedere posizioni. Nel 1990 entrava in vigore la legge 185 che doveva regolamentare il settore della vendita delle armi, e che contiene al suo interno indicazioni e divieti, come quello di cedere armamenti di qualsivoglia specie alle nazioni in stato di conflitto armato o in cui la politica contrasta con i precetti dell’articolo 11 della nostra Costituzione, quello che recita che « L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo ». Vediamo come è andata: da allora abbiamo venduto armi a 123 nazioni. E se gli Stati Uniti e gli altri paesi dell’Unione Europea sono i nostri i partner privilegiati, il portafoglio di clienti si presenta comunque assai ampio e annovera aree calde, in cui i conflitti ci sono eccome: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto, Libia, Siria, Kazakistan, Russia, India, Pakistan, Ciad, Eritrea, Nigeria, Turchia. Nel 2014 in Nord Africa e nel Vicino e Medio Oriente sono finite il 28 per cento delle armi italiane. A certe latitudini non è il binomio pizza mandolino, e nemmeno la Ferrari, a renderci noti. Parliamo di aree in cui si stanno combattendo tutti i principali conflitti dei nostri giorni, dalle cui case arrivano gli sterminati flussi umani di questi anni, i migranti che muoiono in mare a decine di migliaia o che “invadono” il nostro caro vecchio continente. L‘Arabia Saudita è il primo partner non europeo dell’Italia per gli equipaggiamenti militari. Dal 2001 al 2011 vi abbiamo esportato aerei e droni per 1,3 miliardi di euro. Oggi il ricchissimo paese è impegnato in un conflitto terribile con lo Yemen, ed è accusato di essere fra i grandi finanziatori dell’Isis. Nello stesso periodo l’Italia è il primo paese europeo per vendite alla Siria di Assad. Su quasi 28 milioni di euro di equipaggiamenti, 17 provengono da casa nostra, in particolare i mirini dei carri armati. Al secondo posto c’è la Gran Bretagna con 2,5 milioni, staccatissima. Dilettanti. Non serve ricordare la situazione geopolitica di Damasco e come l’uso di queste armi certamente abbiano coinvolto la popolazione civile: la precisione degli spari è tutto merito nostro. La Turchia è il paese che ha acquistato la maggior quantità di armi pesanti (cioè di calibro superiore a .50) dall’Italia. Il totale supera i 60 milioni di euro. Sono gli italianissimi elicotteri della Agusta Westland, azienda che fa parte della holding Finmeccanica, fra i colossi mondiali del settore, a sparare sui ribelli curdi e sulle teste di chissà chi altro ancora. Siamo i migliori partner europei anche per Israele, che da noi riceve il 41% degli armamenti acquistati nel vecchio continente. L’Algeria è il primo acquirente di navi e sottomarini italiani. Dal 2001 al 2011 le vendite di questi equipaggiamenti hanno superato i 400 milioni di euro. Grandi manovre. 100 milioni di euro in veicoli terrestri sono finiti nell’esercito di Putin, pronti a venire impegnati laddove le strategie dell’ex funzionario del Kgb li porteranno. Di contro l’Italia è impegnata al momento in 26 missioni internazionali con circa 5 mila militari in 38 nazioni, per un costo per le nostre tasche nel 2015 di circa un miliardo e 200 milioni. E spesso sono le armi di produzione nostrana a sparare contro i nostri ragazzi che piangiamo quando tornano stretti nelle bandiere tricolori. Siamo in buona compagnia se è vero che soltanto ieri il Dipartimento di Stato statunitense ha approvato la vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 1,30 miliardi di dollari, comprese 13 mila bombe “intelligenti”, armi satellitari capaci di colpire a grande distanza. E commesse simili fanno la gioia di Regno Unito e Russia, Cina e Francia. Armiamo le nazioni e poi andiamo a combatterle, è la nostra specialità.

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    • Gentile Sig. Ernesto Sattaneo,

      l’articolo in questione è stato pubblicato nella versione integrale apparsa su “Riforma”ed è stata citata la fonte quindi si è operato con la massima correttezza politica e legale.
      Detto questo su Internet vi è la massima libertà , abbiamo siti, tanto per fare degli esempi come “Sinistra in rete”o“Karl Marx Platz” che sono delle vere e proprie agenzie di stampa. Senza poi citare il diritto di antologia che riguarda le case editrici, un diritto che ho utilizzato ampiamente quando ho scritto un libro come “Dietro la non-politica” – Massari editore -.
      Personalmente quando alcuni miei articoli vengono ripresi da altri siti (e nessuno mi ha mai chiesto il permesso mi creda, come autore ne sono soddisfatto perché è il segno che ciò che ho scritto è di buona levatura. D’altronde dirigo due siti come “Il marxismo libertario” e “Bandiera Rossa in movimento” che insieme raggiungono più di 60.000 accessi al mese e le posso assicurare che in più di sei anni di attività nessun autore, anche di peso, si è mai lamentato di tali pubblicazioni. Ovviamente se l’autore si dovesse lamentare sono disposto a cancellarlo.
      Tra l’altro sono sempre felice di riprendere articoli apparsi su “Riforma” visto che il mio credo religioso è quello valdese.

      Cordialmente
      Dott. Stefano Santarelli

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