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SI MIGLIORA DAVVERO LA SCUOLA ELIMINANDO GRECO E LATINO? di Franco Cardini

Il tema è, o almeno sembra, di scottante attualità anche da noi. A Torino si sono recentemente misurati, in un “processo contro il liceo classico”, l’economista Andrea Ichino come accusatore e il semiologo Umberto Eco nei panni del difensore. Il liceo classico è risultato assolto, ma con formula dubitativa: dev’essere riformato. E il problema sta tutto lì: come lo riformiamo?

In Francia, il ministro Najat Vallaud Belkacem, con il collège (la scuola media inferiore) sembra andarci giù per le spicce. Nelle sue prospettive di riforma, peraltro subito impugnate e contestate, il latino e a fortiori il greco quasi spariscono sostituiti da “corsi alternativi” à la carte, che dovrebbero essere gli studenti (e/o le loro famiglie?) a scegliere. Il tutto è francamente un po’ fumoso: si parla di una scuola media inferiore “unica” (e unificata”), ma al tempo stesso si moltiplica un’offerta formativa che secondo alcuni dovrebb’essere meno “umanistica”, più “tecnica” e “scientifica”, ma che non appare in realtà sostenuta da alcun progetto didattico chiaro. Si parla come di un toccasana degli EPI (“Enseignements Pratiques Indisciplinaires”: oh, l’amore per le sigle!…) e di transversalité compétentielle, che più che un programma sembra un obiettivo: favorire nei ragazzi l’interesse per gruppi di problemi presentati come concreti anziché per singole discipline, dichiarate pregiudizialmente “astratte”. Quindi niente grammatica e sintassi greca o latina, roba ovviamente “inutile” (ma inutile rispetto a quale prospettiva), e sì invece, appunto, ad EPI che propongono scopi “caratterizzati da concrete competenze”, quali – udite, udite! – come si fa un giornale, come si organizza un dibattito eccetera. E ciò all’insegna del minore sforzo possibile nell’apprendimento e della massima adesione almeno intenzionale rispetto ai problemi e alle prospettive di natura “pratica”: di quelli che per esempio consentirebbero di trovar prima e meglio lavoro se non addirittura di far più soldi. Stessa fumosità per le lingue straniere: si parla dell’introduzione almeno di una seconda lingua dalla metà circa dell’intero corso di studi di sei anni, ma si resta sul generico per quanto attiene ai due problemi fondamentali, le risorse e la selezione nonché l’aggiornamento dei docenti. Anche per il tema, molto sentito sembra dalle famiglie, dell’horaire d’accompagnement, cioè dei corsi di sostegno per gli studenti la resa didattica dei quali è più debole (e questo è un problema davvero drammatico, e in costante crescita al pari del bullismo), si va sulle tre ore settimanali (poche): ma pare che i professori disponibili facciano difetto. E allora?

Naturalmente, si è levato un coro di proteste. Per la verità stamattina a Parigi nulla sembrava diverso dal solito, ma giornali e TV ci hanno informati su una “grande riunione di docenti e studenti alla Sorbonne” (un centinaio di persone…), cui avrebbero preso parte vecchie glorie quali – senti, senti! – Régis Debrey il quale avrebba da par suo tuonato contro la “miopia della classe dirigente” e l’abisso di oblìo della memoria e della cultura che si sta spalancando davanti alle giovani generazioni.

Morale? Potete giurarci: nulla di fatto. Belkacem – progressista, come tutto il suo governo – andrà avanti, nella prospettiva pratica di una “scuola a due velocità”: pagante e quindi “élitista” per chi potrà permettersi gli istituti privati, gratuita e indifferenziata per gli altri. E’ il progetto dominato dalla vecchia formula liberal-liberista che ben conosciamo: tagliare i fondi a tutto quel ch’è pubblico, poi dichiarare che così non va e lasciare che chi può passi al privato; quindi i proventi della manovra privatizzatrice si risolveranno in dividendi per gli azionisti, l’eventuale deficit sarà accollato, al solito, ai pubblici contribuenti. Perché il punto non è che non va la scuola: è che non va la società civile. Non è la scuola a non rispondere alla domanda di formazione culturale con un’offerta adeguata: è la società, nei suoi centri direzionali e nel suo tessuto sociale, che non formula più tale domanda. Per cui, a che diavolo serve il latino? A nulla, per una società che ha deciso di correre compatta – e i media lo dimostrano – verso il semianalfabetismo di massa.

10 aprile 2015

dal sito http://www.francocardini.net/

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SCUOLA: RENZI VA ALLA GUERRA

La scuola che vuole Renzi e il suo governo è la stessa che voleva Berlusconi. La sua politica di populismo propagandistico nasconde anche per questo settore un disegno liberista e reazionario che mai nessuno è finora riuscito ad imporre. Ciò che occorre, come sempre, è una lotta all’altezza dell’attacco.

Le cosiddette linee guida per l’ennesima controriforma della scuola sono contenute in un opuscolo di 136 pagine, il cui titolo è già tutto un programma:“La buona scuola”. Evidentemente, nel giudizio degli estensori, la scuola italiana è ancora una cattiva bambina che va prontamente rieducata.

Premesso che gran parte di questo verbosissimo sproloquio è costituita da pure dichiarazioni di intenti, vaghe indicazioni di obbiettivi e fumose considerazioni sui metodi, soffermiamoci un momento ad analizzare i più recenti fatti che l’anno preceduta, e che ne costituiscono le premesse.

Come sappiamo, la perdurante crisi economica sta spingendo sempre di più i conti dello Stato verso il baratro. Il debito pubblico viaggia spedito verso i 2.200 miliardi, la ripresa non si vede, il PIL non cresce, i consumi crollano, di far pagare chi non ha mai pagato non se ne parla nemmeno, la troika incombe… e quindi che cosa rimane da fare se non tagliare ancora la spesa pubblica, a partire da scuola e sanità?

Da queste semplici considerazioni è facile che capire che ancora una volta la ”linea guida” è una sola, ed è la stessa delle riforme Berlinguer, Moratti e Gelmini: sopprimere posti, diminuire i salari, aumentare i carichi di lavoro.
Naturalmente, come solitamente succede in questi casi, si è fatta precedere la riforma con dichiarazioni “terroristiche”: fra giugno e agosto, nel corso di interviste, tweet e dichiarazioni pubbliche, il sottosegretario Reggi e la ministra Giannini sono arrivati a paventare il raddoppio delle ore di lezione a parità di stipendio per i professori, la eliminazione delle ferie, la libertà di licenziare e assumere da parte dei Presidi e cento altre amenità del genere.
È un trucco vecchio come il mondo, in molti libri di scienze delle finanze gli vengono dedicati persino dei paragrafi: quando un governo vuole prendere provvedimenti che vanno a peggiorare la situazione economica di una certa categoria di cittadini, è bene che preventivamente faccia circolare voci volte a prefigurare gli scenari peggiori immaginabili, di modo che quando poi la riforma effettivamente voluta sarà presentata, apparirà come “meno peggio” rispetto a quella temuta, e i cittadini colpiti la accoglieranno quasi con rassegnazione, se non addirittura con soddisfazione: “pensavo peggio!”

Il fatto è che questa riforma, per adesso solo annunciata, è un “meno peggio” che di peggioramenti delle condizioni di lavoro, della qualità della didattica e della democrazia interna alla scuola ne contiene eccome.
L’unico aspetto apparentemente positivo, che serve a coprire sotto il silenzio tutto il resto, è l’annunciata (anche in questo caso solo annunciata) regolarizzazione e assunzione a tempo indeterminato di 150.000 precari.
Per prima cosa diciamo subito che la stabilizzazione dei precari storici è già stata imposta all’Italia dalla Corte di giustizia europea, e che già fioccano le sentenze di giudici che condannano il MIUR a risarcimenti per centinaia di migliaia di euro. Quindi l’assunzione di questi lavoratori è un atto dovuto, ed era un atto dovuto inserirlo nel documento della riforma. Il problema è che non viene indicato da nessuna parte dove si prenderanno i tre miliardi di euro che servono, ed è opinione comune che, finita l’epoca degli annunci, il numero degli assunti sarà molto inferiore, e finirà per uguagliare quello dei pensionamenti avvenuti nel frattempo.

Il resto del documento, poi, contiene una serie di preannunciati attacchi ai diritti dei lavoratori che fino ad oggi nessuno, comprese Moratti e Gelmini, si era mai sognato di sferrare.
Si parla espressamente di un aumento dell’orario di lavoro, con l’obbligo per i docenti di “regalare” ore a disposizione per supplire i colleghi assenti, così da non dover assumere supplenti temporanei. Si eliminano definitivamente gli scatti legati all’anzianità, sostituendoli con una indegna lotteria che ogni tre anni dovrebbe premiare i docenti più “meritevoli”, peraltro con una somma irrisoria. E stiamo parlando di una categoria di lavoratori con un contratto scaduto da cinque anni e ai quali sono stati scippati gli scatti già maturati da anni e anni, dei quali non parla più nessuno!
Si prefigura una ridefinizione degli organi collegiali della scuola, con uno svuotamento pressoché totale delle competenze del Collegio docenti, con l’ingresso di privati nel Consiglio di Istituto, con l’aumento del potere dei dirigenti. Basti dire che Valentina Aprea e Maria Stella Gelmini cantano, giustamente, vittoria: “è la riforma che avremmo voluto fare noi!”

Nelle 136 pagine del documento c’è altro ancora, ma non sembra il caso di scendere ulteriormente in particolari. Ora spetta ai lavoratori della scuola e agli studenti organizzarsi e mobilitarsi contro questa vera e propria aggressione alla scuola pubblica italiana. Il nemico gode dell’appoggio dei poteri forti, come sappiamo, ma non appare invincibile.

Il “metodo Renzi”, sempre più simile al “metodo Marchionne”, impone al Primo Ministro di bypassare i sindacati, presentandosi come l’eroe popolare, il Bonaparte che farà assumere tanti giovani e polverizzerà i “privilegi” dei lavoratori. Ma, nonostante gli appoggi mediatici di cui gode e le sue qualità di comunicatore, all’interno del mondo della scuola non sembra aver convinto nessuno.
I sindacati confederali sentono franare il terreno sotto i piedi, e qualcosa dovranno pur cercare di dire e di fare, ma il problema che più preoccupa Renzi è che il mondo della scuola, fra docenti di ruolo, supplenti, ATA, studenti e genitori organizzati, rappresenta un parte consistente del suo zoccolo duro elettorale, e lui lo sa bene. La ministra di Scelta Civica non sembra possedere le qualità adatte per far passare una riforma che più la si conosce più appare indigeribile, e già si vocifera di una sua sostituzione con un nuovo ministro targato PD.
Insomma, è questo il momento di organizzarsi e dare il via a una grande mobilitazione contro la controriforma Renzi-Gelmini. Il PCL è e sarà a fianco dei lavoratori della scuola e degli studenti in questa lotta fondamentale per la difesa della scuola pubblica, della libertà di insegnamento, della democrazia all’interno delle aule!


Partito Comunista dei Lavoratori – Commissione scuola e università

22 Settembre 2014


dal sito Partito Comunista dei Lavoratori

La vignetta è del Maestro Mauro Biani

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LA SCUOLA LIBERISTA E AZIENDALE DI MATTEO RENZI di Matteo Saudino

 

Ancora una volta nella recente storia d’Italia è un governo di centro-sinistra a realizzare una riforma politica dall’impianto liberista, autoritario e aziendale tipica degli esecutivi conservatori di centro-destra. In passato è accaduto per la riforma delle pensioni (prima Dini e poi Fornero), per la riforma del lavoro (pacchetto Treu) e per l’istituzione dei centri di detenzione per immigrati senza permesso di soggiorno (legge Turco-Napolitano).

Ora è il turno della scuola. Al di là delle strumentali, ma molto significative, dichiarazioni dell’ex Ministro dell’Istruzione Gelmini (“Il patto educativo di Renzi raccoglie e realizza le proposte di cambiamento della scuola portate avanti da Forza Italia”), e dell’ex sottosegretario Aprea (“le proposte di Renzi sono una riproposizione del mio progetto”), la “buona scuola” renziana rappresenta a tutti gli effetti il punto di arrivo di decenni di tentativi di trasformare la scuola pubblica italiana in un’azienda funzionale alle esigenze delle imprese e del mercato.

La “buona scuola”, di cui si stanno gettando le fondamenta, non deve più formare i cittadini (se non a parole), non deve più offrire gli strumenti culturali per decodificare la realtà, e nemmeno stimolare la crescita del pensiero critico, che sta alla base delle possibilità di autodeterminazione e di emancipazione individuale e collettiva. La nuova scuola italiana deve rottamare il passato; deve essere più moderna, flessibile, meritocratica (nuova mantra salvifico e rigenerante) e deve stare al passo con le sfide che il dinamico sistema economico capitalistico costantemente propone. Chi si ferma è perduto.
Per questo occorre cambiare la scuola e per questo il governo si appresta a varare l’ennesima riforma scolastica (la quarta in poco più di dieci anni- unico paese al mondo che può vantare tale primato).

Per completare la trasformazione della scuola italiana secondo il modello aziendale, Renzi ha avuto una trovata geniale: in una fase storica caratterizzata da disoccupazione giovanile di massa, l’ex sindaco di Firenze afferma che il sistema scolastico del futuro dovrà fondarsi sul lavoro. Giù il cappello; siamo in presenza di una trovata propagandistica degna del miglior Berlusconi.

Chi, infatti, non vorrebbe al termine del proprio percorso di formazione trovare un’occupazione affine ai propri studi? Chi in carenza di risorse non è disposto a salutare positivamente l’ingresso di capitali privati nella scuola pubblica? Chi non reputa utile sacrificare alcune ore di italiano, latino, storia, filosofia o letteratura, in cambio di discipline come informatica o inglese? Chi non giudica una grande opportunità alternare ore di studio con ore di lavoro-apprendimento presso imprese, in cui magari un domani trovare un posto di lavoro? Praticamente quasi nessuno, se non i nostalgici di una paideia classica, oggi per lo più riservata ai soli figli della medio-alta borghesia, che aspirano (o che sono indotti ad aspirare) a diventare futura classe dirigente. Chi, infatti, dopo essere stato affamato e disidratato per anni, sceglierebbe di passare del tempo in biblioteca, al cinema o a teatro, anziché mangiare e bere una succulenta ciotola di pane e acqua?

L’impoverimento, generato dalla lunga crisi sociale e economica che stiamo vivendo, ha tolto agli studenti le aspirazioni ad avere un futuro migliore di quello che hanno sognato i loro genitori. Il realismo si è tramutato in pessimismo, e le lotte di solidarietà per avere più torte da mangiare si sono tramutate in ciniche competizioni per accaparrarsi l’ultima fetta disponibile. Pertanto basta con la vecchia scuola figlia del ’68: ma quale democrazia e partecipazione, ma quale egualitarismo e solidarietà, ma quale fantasia e creatività, ma quale contrattazione sindacale, ma quale centralità degli organi collegiali! I tempi sono cambiati: servono più disciplina, più potere decisionale nelle mani dei dirigenti scolastici, più privato e meno pubblico, meno libri cartacei e più tecnologia (da sempre la panacea ad ogni problema, il vero motore di ogni modernità).

Serve una scuola al passo con i tempi, serve una buona scuola che prepari gli studenti al futuro che li attende; così i ragazzi e le ragazze saranno pronti ad entrare in un mercato del lavoro flessibile, in continuo mutamento, che richiede soggetti pronti a cavalcarlo, pronti a vivere in un mondo in cui prima vengono i doveri e poi i diritti, in cui prima si è consumatori e poi cittadini.

La buona scuola renziana è quella che ti prepara al mondo del lavoro di oggi! Cioè poco lavoro, precario, sottopagato e per lo più poco qualificato. La classe dirigente nostrana, nonostante menta continuamente, è ben consapevole che il vero problema dell’Italia non è la mancanza di flessibilità, bensì la scarsa necessità di lavoro qualificato e specializzato. Il nostro Paese ha perso e sta perdendo tutti i poli industriali e di ricerca di qualità. In questo contesto, legare la scuola al lavoro significa in realtà offrire manodopera manuale e intellettuale alle imprese già in età scolastica!

Nella proposta Renzi non si parla più, per gli istituti tecnici e professionali, di stage lavorativi (fondamentali in un percorso di formazione), ma si parla di 200 (!!!!) ore curriculari, in gran parte sottratte ad altre discipline, da svolgere in un luogo di lavoro. Questa non è più una scuola che affonda le proprie radici nell’istruzione, ma sullo sfruttamento del lavoro e sulle differenze di classe.

La scuola della repubblica, è bene ribadirlo, non si fonda sul lavoro, ma sul diritto allo studio e al sapere (scientifico e umanistico), promuovendo i diritti di cittadinanza, la crescita personale di ogni individuo, la mobilità sociale e la costruzione di una comunità solidale. Per non essere fraintesi: non vi è nessun età dell’oro della scuola di cui avere grande nostalgia. Il sistema scolastico italiano, come la maggior parte di quelli europei, è sempre stato, nel suo complesso, uno strumento di riproduzione dello status quo, delle differenze di classe, ma aveva formalmente (e speriamo continui ad avere) un impianto fortemente democratico e universalista, figlio della Costituzione nata dalla Resistenza e dei grandi cicli di lotte del movimento studentesco, operaio e femminista.

Ciò che ora Renzi vuole fare è rompere questa prospettiva costituzionale con un progetto ambizioso, estremamente ideologico e al contempo pragmatico: l’obiettivo è trasformare, nella sostanza e nella forma, la scuola in un’azienda gestita da un preside manager, il quale con i suoi collaboratori, detta le linee politiche della scuola, in accordo con le risorse del territorio, ovvero con gli enti politici (es. Comuni e Regioni) e soprattutto con le imprese private. Si vuole costruire la scuola della competizione: tra istituti, tra docenti e tra studenti.

La competizione è il sale della crescita economica liberista, è il motore del mercato e la scuola non può più essere un dinosauro che promuove, anche solo formalmente, cooperazione, solidarietà, integrazione e orizzontalità. La scuola deve diventare il volano ideologico e materiale di questo subordinamento della cultura, del sapere e dei diritti alle esigenze totalizzanti del mercato e della crescita capitalistica, la quale nel sud Europa è sempre più difficile, sempre più lenta e sempre più iniqua.

Per cambiare in modo così profondo la scuola pubblica servono degli strumenti operativi, e la Riforma renziana ne individua due su tutti: la possibilità di valutare il merito degli insegnanti e far entrare i capitali privati all’interno della scuole. E’ questo il cuore pulsante della Buona Scuola di Renzi, il quale, ben consapevole della portata di tale proposta, chiede agli insegnati e ai sindacati un vero e proprio patto: da un lato l’esecutivo offre la stabilizzazione di 150.000 docenti abilitati inseriti nelle Gae (graduatorie ed esaurimento), che da anni svolgono supplenze annuali, permettendo il regolare funzionamento della scuola, dall’altro il governo chiede l’accettazione di un sistema di valutazione del merito degli insegnanti, a cui collegare la carriera e gli aumenti di stipendio, e l’ingresso ufficiale di sponsor privati nella scuola pubblica, con potere di incidere sulle politiche scolastiche.

Anche in questo caso Matteo Renzi e i suoi collaboratori sono più abili e scaltri dei venditori di gelati al Polo Nord. Il governo promette, senza copertura finanziaria accertata, di assumere i 150.000 docenti tra un anno, mentre propone-impone nell’immediato il blocco degli stipendi e l’accettazione della trasformazione della scuola in un’azienda.

Come dire di no ad un piano di assunzioni così imponente? Poco importa se i nuovi docenti assunti dovranno migrare di provincia in provincia e forse non insegnare la materia in cui si sono specializzati. Poco importa se verranno cancellate le graduatorie d’istituto con i loro 500.000 insegnanti che svolgono le supplenze brevi. E poco importa se l’assunzione dei precari storici genera l’ennesima guerra tra poveri, in quanto gli abilitati Pas e TFA si sentono esclusi da tale piano di stabilizzazione. Di fronte a questa svolta politica il governo è sicuro di trovare il consenso necessario per procedere.

Ancora una volta la strategia del divide et impera darà i suoi frutti. Probabilmente sarà così. Il corpo docenti è stanco, diviso e stremato da decenni di riforme, salari bassi, precarietà e innalzamento dell’età pensionabile. Inoltre come non brindare, nonostante gli incancellabili torti subiti, all’assunzione di decine di migliaia di insegnanti, dopo interminabili anni di precarietà?

Renzi e i suoi collaboratori hanno cucinato una polpetta avvelenata a cui sembra difficile dire di no. Ed è proprio sulla questione delle 150.000 assunzioni che occorre fare chiarezza. Va, infatti, ricordato che il governo italiano si trova costretto a stabilizzare entro il 2015 tali docenti, in quanto la Corte di Giustizia Europea ha richiamato l’Italia per abuso di contratti a tempo determinato superiore ai 36 mesi all’interno della pubblica amministrazione e sta per infliggerle una multa salata; per anni il Miur ha assunto in maniera reiterata, ma indebita, decine di migliaia di insegnanti a settembre per poi licenziarli, in modo che lo Stato possa non retribuire due mensilità e possa assumere sempre con un contratto di inizio carriera con paga minima. Siamo in presenza, ancora una volta, di un genio della comunicazione o forse di una popolazione perlomeno stanca e distratta?

Ricapitoliamo. Renzi, in cambio di assunzioni dovute e tardive, chiede che finalmente si possa valutare il lavoro degli insegnanti. In cambio di lavoro stabile chiede agli insegnati di far crollare l’ultimo tabù della scuola: valutare chi valuta! Ma di cosa si tratta? Proviamo, scusate il gioco di parole, ad entrare nel merito. Secondo il governo per migliorare la scuola serve valutare i docenti. Il merito degli insegnanti è veramente il problema che affligge la scuola italiana?

Il governo ha provato a consultare a tal proposito gli studenti e i genitori? La tanto sbandierata questione della valutazione è, in realtà, un falso problema; è il classico dito che nasconde la luna. La questione del merito serve a spostare l’attenzione dai veri problemi della scuola (classi sovraffollate, salari bassi, mancanza di laboratori, edifici non a norma di sicurezza, palestre obsolete, insegnanti in cattedra sino a 68 e 65 anni) e a soddisfare la pancia dell’opinione pubblica che vede nei lavoratori statali dei privilegiati, mai licenziabili, mai valutabili, con troppe ferie, nullafacenti.

Gli insegnanti, infatti, non temono di essere valutati, ma respingono la valutazione come premio ad azioni servili nei confronti dei dirigenti scolastici e dei loro collaboratori. In cosa consiste, infatti, il merito per i novelli riformatori? Questi ultimi dichiarano di voler “cominciare a considerare gli insegnanti finalmente come persone e come professionisti disposti ad assumersi impegni diversi”, contro il “grigiore dei trattamenti indifferenziati” e di “competizione al ribasso”.

Secondo le indicazioni della riforma, bisognerà valutare la qualità dell’insegnamento in classe e la capacità di migliorare il livello di apprendimento degli studenti. In realtà si tratta di elementi difficili da misurare e se la riforma intende farlo attraverso le prove INVALSI non potrà che raccogliere informazioni fuorvianti. Difatti non rileverebbe i livelli di miglioramento (non esiste un test sulle condizioni di ingresso) né terrebbe in considerazione il contesto socio economico e culturale degli allievi né quello territoriale. Inoltre si vorrebbe premiare “l’attività di ricerca e la produzione scientifica che alcuni intendono promuovere”: un buon insegnante dunque dovrebbe pubblicare articoli e libri?

Infine, chi fornirà la valutazione? Il documento fa cenno ad una commissione composta da tre persone: il dirigente, un’altra persona interna all’istituto ed un esterno. Il portfolio del docente verrà vagliato dal Nucleo di Valutazione interno di ogni scuola, a cui parteciperà anche un membro esterno (Chi? Un genitore? Colui che dona dei soldi alla scuola? Un vip? Un imprenditore del territorio? E perché non una casalinga o un operaio?).

La verità è che verrà premiato chi più asseconderà tutte le richieste del dirigente scolastico. Il servilismo verrà a coincidere con il merito. Inoltre, si stabilisce per legge che solo il 66% sarà meritevole e dunque premiabile con un aumento salariale deciso dal governo. E per i non meritevoli? Niente aumento e ci mancherebbe, non sono dei bravi insegnanti e peccato per gli studenti che dovranno averli come docenti (a meno che la prevista pubblicazione on-line del profilo di ogni professore non permetta in futuro alla famiglia—cliente di comprarsi il docente-prodotto che preferisce; siamo o non siamo in una società di mercato?)

Ecco che la scuola azienda-gerarchizzata prende forma. La scuola dei sommersi e dei salvati. Se si volesse veramente valutare il merito degli insegnanti perché non si inizia con il premiare già da ora i docenti che operano in situazioni chiaramente disagiate: classi sovraffollate, periferie e zone degradate, mancanza di sussidi informatici? La verità è che il merito serve ad affamare ancora di più la bestia, in modo che essa diventi ancor più ricattabile e dunque obbediente.

Collegare gli aumenti di stipendio ad un meccanismo così clientelare significa innescare una guerra tra poveri, tra piccole mediocrità, che peggiorerà il clima all’interno delle scuole, peggiorandone i meccanismi di apprendimento. Fare della scuola un luogo di competizione è il modo migliore per farla ammalare e morire, per poi spolparla e venderne in seguito i pezzi sul mercato, dove qualcuno, a poco prezzo, la comprerà e, dopo averla privatizzata del tutto, ne rivenderà i servizi allo Stato. Da bene comune di tutti, a bene privato per alcuni: il gioco è fatto.


8 settembre 2014


dal sito Sinistra Anticapitalista



La vignetta è del Maestro Mauro Biani

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LA BUONA SCUOLA LIBERISTA DI RENZI di Francesco Locantore

 

 
 
 
 

Dopo gli annunci estivi del sottosegretario Reggi, della ministra Giannini e dello stesso Renzi, è stato reso pubblico il rapporto del governo Renzi intitolato “La buona scuola”, con una serie di idee guida per una riforma organica, nonostante il governo abbia deciso di non chiamarla così, della scuola italiana.

Il rapporto consta di ben 136 pagine, è diviso in sei capitoli ed è corredato da un allegato in cui si sintetizzano le dodici proposte che sintetizziamo in due blocchi: (1) reclutamento degli insegnanti, avanzamenti di carriera e gestione dell’organico; (2) intervento sui programmi di studio e alternanza scuola-lavoro.

1 Mai più precari nella scuola, ma insegnanti sempre più poveri e ricattabili

Il primo blocco di proposte riguarda l’annoso problema del reclutamento e l’avanzamento di carriera degli insegnanti. Il governo annuncia l’assunzione a tempo indeterminato dal primo settembre 2015 di tutti i precari inseriti nelle graduatorie ad esaurimento e dei vincitori e idonei del concorso di Profumo del 2013 (proposta n. 1). Si tratta di quasi 150mila insegnanti, più o meno corrispondenti al numero di insegnanti tagliati da Berlusconi, Tremonti e Gelmini nel triennio 2008-2011. Questo provvedimento costerebbe, secondo i calcoli del governo, circa tre miliardi di euro l’anno a partire dall’esercizio finanziario 2016 (molto meno nel 2015, visto che si tratterebbe di pagare solo quattro mesi di stipendio, molti dei quali si sarebbero comunque pagati ai precari).

Se questo provvedimento fosse effettivamente realizzato sarebbe da salutare come una vittoria delle lotte dei precari che si stanno battendo da anni per la stabilizzazione, e che hanno portato la questione fino alla Corte di Giustizia europea, di cui è attesa una sentenza di probabile condanna per l’Italia. In Italia infatti non si applica neanche la pur permissiva normativa che impone di non poter sfruttare i lavoratori con contratti a tempo determinato oltre tre anni senza una prospettiva certa di stabilizzazione. L’Italia è anche oggetto di una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea su questo punto, e certo non farebbe una bella figura Renzi proprio nel semestre di presidenza italiano a mantenere in piedi una situazione simile.

Tuttavia per i costi previsti ci sentiamo di dubitare dell’attuazione di queste pie intenzioni, fino a che non vedremo nero su bianco lo stanziamento delle risorse necessarie. D’altronde mentre si promette per il prossimo anno l’assunzione di un contingente importante di insegnanti, in questo anno scolastico se ne assumono meno di quelli previsti dal Dl Scuola dello scorso anno, visto che la ragioneria non ha autorizzato tutte le assunzioni previste in mancanza della copertura finanziaria.

I nuovi organici previsti dopo l’assunzione dei precari dovrebbero, secondo il governo, essere tali da non ricostituire una massa di insegnanti precari negli anni successivi, potendo far fronte alla copertura delle supplenze “brevi” (proposta n. 3), e potendosi così reclutare i futuri insegnanti attraverso concorsi per abilitati su base regolare in modo da sostituire gli insegnanti che andranno in pensione (proposta n. 2). E’ molto probabile che la soppressione delle graduatorie di istituto, da cui venivano attinti i supplenti brevi, passerà anche attraverso un aumento dell’orario di lavoro dei docenti. Anche se il rapporto non è esplicito su questo tema, si parla di “banca delle ore” da utilizzare nella propria scuola nella rete di scuole a cui si afferisce per coprire le necessità di supplenze temporanee.

La propaganda di Renzi sulle assunzioni dei precari senza dubbio serve a far digerire al corpo docente l’eliminazione degli scatti di anzianità, che verranno sostituiti da scatti di “merito”, attribuiti a non più dei due terzi del corpo docente ogni tre anni sulla base del giudizio del nucleo di valutazione di ciascuna scuola o rete di scuole (proposta n. 4 e 5).

Questo è un affronto inaccettabile che colpisce gli insegnanti meno pagati d’Europa, con gli stipendi fermi dal 2009 (e ancora per tutto il 2015, come annunciato oggi stesso dalla ministra Madia), puntando a dividere i lavoratori, ad asservirli ai capricci dei dirigenti scolastici limitando il diritto costituzionale alla libertà di insegnamento. Questo provvedimento colpirà innanzitutto i precari, gli ultimi arrivati nelle scuole che andranno automaticamente a finire nel terzo non meritevole di prendere gli scatti, ma in generale favorirà un clima di competizione all’interno del corpo docente di ciascuna scuola. La retorica meritocratica con cui viene avanzata questa proposta mostra le sue contraddizioni in modo evidente: che senso ha stabilire per legge che in ciascuna scuola ci sono di terzi di docenti meritevoli e un terzo non meritevole? Sulla base di quali criteri si pensa di poter operare questa distinzione? Le proposte contenute nel rapporto del governo sono le stesse che sono state avanzate negli ultimi anni: da una parte il sistema nazionale di valutazione, che ruota attorno agli assurdi test dell’Invalsi, e dall’altra l’arbitrarietà dei dirigenti e della loro cerchia che andrà a costituire il nucleo di valutazione, con l’apporto dei privati che investono nella scuola.

Se questo provvedimento dovesse vedere la luce, come è probabile visto che, a differenza delle stabilizzazioni, non ha costi per lo Stato (anzi, è probabile che si realizzino risparmi rispetto al sistema degli scatti di anzianità), la funzione docente come l’abbiamo conosciuta finora ne risulterà stravolta. Altro che incentivo alla formazione e all’aggiornamento! Non è difficile prevedere la corsa ad accumulare punti di valutazione attraverso il mercato dei master privati, ad impegnarsi in progetti e progettini di gradimento del dirigente anziché nella didattica per gli studenti, ad orientare la didattica alla performance nei quiz Invalsi… La già difficile collaborazione tra docenti di materie diverse per una didattica interdisciplinare sarebbe minata dalla concorrenza interindividuale per rientrare nei due terzi di docenti graziati dallo scatto di merito triennale.

2 La scuola dell’autonomia al servizio del profitto privato

La retorica della meritocrazia è il pilastro su cui si fonda anche il secondo blocco di proposte del governo Renzi che va sotto il titolo della valorizzazione dell’autonomia delle scuole. In concreto il governo Renzi propone di dare ancora maggiore potere ai dirigenti delle singole scuole nel decidere addirittura sui docenti da utilizzare nella didattica sulla base di un registro nazionale dei docenti che riporti i curriculum formativi di ciascuno (proposta n. 6), di aumentarne la discrezionalità attraverso l’abolizione di una serie di “procedure burocratiche” (proposta n. 7).

Gli organi collegiali verrebbero stravolti, come era già intenzione dei governi precedenti che hanno sostenuto la proposta di legge Aprea, respinta dai movimenti della scuola in particolare nell’autunno 2012. Gli organi di gestione effettiva della scuola saranno il dirigente, il nucleo di valutazione e il consiglio dell’Istituzione scolastica, mentre al collegio (consiglio) dei docenti rimarrebbe la sola competenza della programmazione didattica. Nessuna menzione è fatta del consiglio di classe e dell’assemblea degli studenti, previsti dall’attuale normativa.

Il governo Renzi intende intervenire anche sui programmi delle scuole, valorizzando da una parte la musica, la storia dell’arte (niente da eccepire) e l’educazione fisica (non ci eravamo resi conto dell’enorme problema dell’obesità infantile… proposta n. 9), dall’altro riproponendo sotto altri nomi le tre “i” di berlusconiana memoria: inglese, informatica (coding) e imprese (economia, proposta n. 10). Si dice di voler valorizzare le attività di laboratorio, dimenticando che la recente riforma delle superiori avanzata dalla Gelmini ha compresso le ore di laboratorio, di storia dell’arte finanche nei licei artistici, il diritto e l’economia. Perché non partire proprio dall’abrogazione di quella riforma e dalla restituzione delle ore tolte specialmente alle scuole tecniche e professionali? Per i tecnici e professionali invece c’è in serbo la proposta dell’alternanza obbligatoria tra scuola e lavoro negli ultimi tre anni del percorso scolastico (proposta n. 11), ovviamente attraverso stage non retribuiti e senza alcuna garanzia di assunzione al termine, grazie anche al Jobs Act di cui lo stesso governo Renzi è promotore.

Le imprese ringraziano per questo regalo ulteriore, d’altronde queste saranno direttamente coinvolte nella gestione del sistema di istruzione pubblico, attraverso i piani di digitalizzazione delle scuole (proposta n. 8), al finanziamento diretto con incentivi fiscali e all’utilizzo delle strutture negli orari pomeridiani (proposta n. 12). Senza contare che la valorizzazione dell’autonomia fino al parossismo di poter diversificare gli indirizzi culturali di ciascuna scuola (questo il senso della possibilità dei presidi di potersi scegliere l’organico), apre alla diversificazione delle scuole in base alle esigenze delle imprese che le finanzieranno, alla competizione tra scuole per attrarre i finanziamenti privati e gli alunni provenienti da famiglie più facoltose, in spregio ad una istruzione di qualità per tutte e tutti.

In conclusione, il progetto del governo Renzi è un progetto di ampia portata di liberalizzazione del sistema di istruzione per adattarlo alle esigenze del mercato capitalistico, un attacco senza precedenti ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola ma anche agli studenti e alle studentesse, reso ancora più insidioso dalle promesse di stabilizzazione dei precari e di reinvestimento nell’istruzione, che sono tutte da verificare alla prova dei fatti e che cozzano con le politiche di austerità che il governo continua a perseguire in Italia e in Europa.

Il governo ha aperto con questo rapporto una consultazione di due mesi nella scuola e nella società. Come è già stato fatto su altri temi, questa consultazione sarà finta, si millanteranno migliaia di email e tweet ricevuti a sostegno delle proposte del presidente del consiglio. Il dissenso delle persone in carne ed ossa dovrà esprimersi visibilmente nelle scuole e nelle piazze in questo autunno. Occorre mobilitarsi, a partire dalle assemblee previste in questi giorni (a Roma il 15 settembre), nei collegi e nelle assemblee scuola per scuola, e convergere con uno sciopero unitario dei sindacati della scuola sulla data di mobilitazione nazionale lanciata dagli studenti per il prossimo 10 ottobre.


3 settembre 2014


dal sito Il Sindacato è un altra cosa


La vignetta è del Maestro Mauro Biani

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ROMA – 1 SETTEMBRE: ASSEMBLEA DEI LAVORATORI DELLA SCUOLA

 

 

Roma, 1 settembre: assemblea dei lavoratori della scuola

Considerato che la riforma della scuola sarà presentata mercoledì 3 settembre,

(A darne conferma il Primo Ministro Matteo Renzi che assicura essere pronta e che il rinvio è dovuto soltanto ad una questione comunicativa: Troppa carne sul fuoco oggi al Consiglio dei Ministri la riforma sarà presentata mercoledì. La notizia è stata data dall’agenzia ASkCA)

Riteniamo che:

UNITI POSSIAMO LOTTARE CONTRO I PIANI DEL GOVERNO

DIVISI ABBIAMO GIÀ PERSO

Con questa convinzione ci riuniremo in assemblea lunedì 1 settembre, riproponendoci di imparare dagli errori passati. Negli ultimi anni gli elementi e i motivi di divisione ci hanno impedito di trovare momenti unificanti di lotta nonostante la gran parte della categoria disapprovava le misure di politica scolastica che i diversi governi hanno realizzato. La nostra categoria si è trovata così frammentata e divisa ed ogni singolo spezzone ha cercato di resistere ma in modo isolato e, a volte, con modalità che di fatto hanno contribuito a ulteriori divisioni.

Crediamo che dobbiamo imparare dai nostri errori ed evitare di ripeterli. L’invito all’unità non è perciò solo di ordine morale: solo una forte, duratura e consapevole opposizione può fermare i cambiamenti che il governo vuole imporre alla scuola e che avranno pesanti conseguenze sul personale, sugli studenti, sulle famiglie.

Alle proposte di divisione rispondiamo con le nostre proposte

1) aumenti per tutte/i di 200 euro contro ogni riproposizione di riconoscimenti economici “ai più bravi”

2) difesa del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro contro l’individualizzazione dei diritti

3) miglioramento delle condizioni di lavoro contro l’aumento dell’orario ed il peggioramento dell’offerta formativa

4) immissione in ruolo dei precari su tutti i posti disponibili contro il tentativo di espulsione di migliaia di lavoratori e lavoratrici

Per questo invitiamo tutte/i all’incontro che preparerà l’Assemblea cittadina da tenere entro la metà di settembre e le ulteriori forme di mobilitazione

LUNEDÌ 1 SETTEMBRE

PRESSO IL CIELO SOPRA L’ESQUILINO ALLE ORE 17

via Galilei 57 – fermata Manzoni metro A
Autoconvocati scuola – Precari Uniti contro i tagli

Fonte

 

 

 

 

 

 
 

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IL RITORNO DEL GATTOPARDO di Nicoletta Vallorani

 
 
 

Tomasi di Lampedusa era un genio. Tuttavia non credo proprio che immaginasse quanto sarebbe stata longeva e lungimirante la frase che nel Gattopardo esce di bocca al giovane Tancredi Falconeri, pronto ad unirsi, con grande scandalo della sua famiglia, alle truppe garibaldine. “Affinché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Appunto.
Certo, si era nel Risorgimento. Quelli erano tempi eroici. E il Gattopardo è senza dubbio un capolavoro della letteratura. Però in Italia, e nella vita pubblica soprattutto, il principio è rimasto quello, non si scappa. Imbarbarito e senza prestigio artistico, formulato male e messo in scena ancora peggio, e tuttavia invariabilmente sempre quello: è un paese in cui nulla cambia se non la superficie delle cose. E quella deve cambiare, così noi gente normale ci illudiamo che finalmente si respiri un’aria diversa.

Prendiamo l’Università, per esempio. Nonostante l’opposizione, la resistenza, le voci che urlavano “Gelmini delenda est”, la riforma minacciata da un paio di ministeri consecutivi e finalmente realizzata dal ministro dell’Istruzione più naif, per dirla in modo garbato, della nostra storia, è diventata realtà. È entrata cioè in una declamata fase operativa di tagli e riorganizzazioni.
Sui tagli, in effetti, non vi è dubbio. Una scure pesante si è abbattuta sull’istruzione. Non alla cieca, però: quello sarebbe poco professionale e cialtronesco. Se c’è un problema economico, l’importante non è agire in modo efficace nel campo dell’economia, ma dare l’impressione di farlo, e sollevare un gran polverone mentre ci si atteggia a nuovi Robin Hood. In questo, bisogna ammetterlo, siamo bravissimi. Attori nati e bugiardi patologici, bravi proprio perché convinti dell’assoluta verità delle nostre bugie, interpretiamo la verità, perché semplicemente dirla sarebbe banale e forse poco interessante. Tagliamo gli sprechi all’Università. E per dimostrare che lo facciamo, invece di razionalizzare un sistema di spesa a dir poco bislacco e sbilanciato e introdurre qualche controllo, dimezziamo il finanziamento tout court. È come se per risolvere il problema di un rubinetto che perde, io mi facessi chiudere l’acqua. Il rubinetto perde uguale, ma il fatto che acqua non ne cada per un po’ crea l’impressione che il danno sia stato riparato. Però prima o poi l’acqua bisognerà aprirla di nuovo, e sarà chiaro che il problema non è stato risolto. Così i finanziamenti per l’istruzione universitaria sono stati dimezzati, ma quel poco che c’è si incanala sempre per le stesse vie, che non sono quelle della promozione della ricerca, del supporto ai giovani studiosi e dell’incentivazione delle attività di sviluppo. Nulla di tutto ciò.
In un paese intimamente gerarchico e velleitario, anche la scure dei tagli è perfettamente avvezza alla lettura di Tomasi di Lampedusa, e quindi sa bene che i rami più facili da recidere sono quelli più bassi, e se in mezzo ci son germogli, non fa nulla. Niente ricerca, niente nuove assunzioni, riduzione dei dottorati, definitiva cancellazione della dignità delle discipline umanistiche, che com’è noto sono una valida occupazione solo per checche, rampolle di ricche famiglie e ragazzi in apparenza sani e normali solo se in realtà hanno qualche squilibrio mentale nascosto. Si sono incentivate le politiche di acquisizione di finanziamenti esterni, sui quali è mediamente aumentata – in molti atenei anche se non in tutti – la percentuale trattenuta dall’amministrazione centrale: una sorta di pizzo in cambio del quale non si ottiene protezione. Sono aumentati gli studenti per aula, il che rende alcuni insegnamenti pratici o linguistici francamente ridicoli: provate a imparare il cinese, da principianti, essendo 180 in una sola aula. Le tasse sono cresciute, i contributi per merito diminuiti. Le borse di studio stanno diventando fenomeni esotici e leggendari dei quali si favoleggia senza averle mai sperimentate.
Però la struttura è stata rimodernata. Non ci sono più le facoltà. Si sono accorpati i dipartimenti. Si sono rifatti tutti i regolamenti. Bene: finalmente un po’ di movimento. E però come si fa a sopravvivere a questa travolgente ventata di novità? Come si può proteggersi da questo tsunami – per usare un termine così di moda – di giovanile rinnovamento? Semplicissimo. Le facoltà non ci sono più? I dipartimenti diventano piccole facoltà, e ne svolgono quasi tutte le mansioni. Quelle che restano fuori, vengono restituite a nuovissime strutture di raccordo tra dipartimenti, che si chiamano, pensate un po’, facoltà. Naturalmente bisogna eleggere ex novo ogni organo collegiale: operazione rischiosissima per il nuovo delicato equilibrio che si sta costituendo. Perciò come proteggersi? E come faranno i giovani e inesperti virgulti a occuparsi di una macchina così complessa? Nessun problema: per garantire il minimo di continuità necessaria, rieleggiamo le stesse persone con una lieve rotazione delle cariche. Chi era presidente diventa vice, e chi era vice si fa presidente. Questo quando proprio non è possibile mantenere le cariche esattamente come sono, con gli stessi nomi ricamati sopra, per risparmiare anche sul lavoro di revisione del sito.

In questo gioco delle tre carte, c’è una sola cosa che va irreparabilmente perduta, ed è la nostra dignità. La credibilità della cultura che si supponeva dovessimo occuparci di diffondere. Il progetto formativo. Insomma queste doti obsolete che il nostro sistema scolastico e universitario aveva. Ma, parbleu, molto meglio internazionalizzarsi, equipararsi al mondo. Che questo produca fenomeni diffusi di analfabetismo di ritorno non è rilevante. Conta, come diceva il buon Tomasi, che tutto resti uguale, in questa immobilità assoluta che oggi appare meno sfavillante e nobile di quanto fosse ai tempi. Più che un gattopardo, al massimo, qui parliamo di un toporagno. Ed è anche troppo.


da  A-Rivista Anarchica
       www.arivista.org

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LA SCUOLA NEL SISTEMA IN CUI NON SERVI A NULLA di Miguel Martinez

 






Un problema cronico, la scuola, si presenta sempre più grave. Se ne parla tanto, si propongono soluzioni, eppure si aggrava sempre di più, perché la decadenza della scuola si collega a un problema ben più vasto, una crisi sistemica che ha tante facce. Le facce più vicine sono quelle dei nostri figli in età scolare, ai quali ci sentiamo di dover dare qualche risposta. Partirò insomma dalla scuola, ma dovrò andare oltre.
Sento in giro due discorsi, il primo prevalente nei media, il secondo tra le persone che possiamo considerare in qualche modo affini a noi:

1) «la vecchia scuola va riformata, in buona parte privatizzata, “efficientizzata”, finalizzata al mercato»;
2) «dobbiamo conservare a tutti i costi la vecchia scuola, come istituzione parastatale, sostanzialmente libera dal mercato».

Secondo me, dobbiamo invece uscire da questo doppio monologo, così come usciamo dal doppio monologo «destra e sinistra».

Si tratta di capire che la scuola è una delle istituzioni fondamentali dello Stato Nazione. E lo Stato Nazione è in via di collasso in tutto l’Occidente (non parlo per il resto del mondo). Non si tratta semplicemente della prevalenza temporanea di “cattive idee” neoliberali, che si possano esorcizzare con un richiamo alla Costituzione, ma di una cosa enormemente più grande, che ha a che fare sia con il crollo delle basi energetiche dello Stato Nazione, sia con l’esplosione informatica, per citare solo alcuni fattori.
Se leggete i discorsi di chi difende la scuola pubblica, vedrete che ricorrono incessantemente espressioni dello stesso tipo: “povera scuola”, “crisi”, “resistere”, “non farsi sommergere”, “salvare”…
Attenzione, dire che una cosa sta morendo non vuol dire condannarla. Non si tratta affatto di condividere il monologo “privatista”. Né di sottovalutare minimamente gli aspetti positivi che ha avuto la scuola pubblica.
Vuol dire, prenderne atto e capire che dobbiamo dedicare le nostre poche forze a trovare un’«alternativa» adatta ai tempi tremendi che ci aspettano, anziché dedicarci all’accanimento terapeutico.
Non ho idea di cosa ciò possa implicare. Forse (forse) abbiamo qualcosa da imparare dai pensatori “alternativi” statunitensi, che sono nati nel paese del capitalismo assoluto, senza dover far conto con i residui arcaici che ci sono in Italia; e che non vivono in modo così forte il dilemma italiano «Stato contro Privato».
Ma credo che dobbiamo iniziare a pensare in termini diversi dall’identificazione tra “stato” e “beni comuni”.
Comunque mi riferisco solo in parte all’Italia. Gran parte delle mie riflessioni nascono infatti dalla lettura di un libro di Régis DebrayLo stato seduttore , che parla della scuola francese, e che risale a ben 20 anni fa. Più in generale, credo che qualunque discorso sulla scuola dovrebbe essere fatto almeno analizzando i processi in corso in tutta Europa e nel mondo, e non solo in Italia.
Ovunque ci siano agitazioni nel mondo della scuola – a Chicago oppure a Parigi o Madrid – troveremo analisi che sembrano dipingere i problemi scolastici italiani.
Ovviamente, la maniera in cui i singoli dispositivi giuridici reagiscono alla crisi globale sono diversi, ma sono più collegati di quanto pensiamo: Roberto Renzettitempo fa fece uno studio interessante sui lavori del think tank sulla riforma scolastica globale .

Per quanto riguarda il collasso dello Stato-Nazione, mi sembra il dato più evidente di tutti: lo Stato Nazione è un modo particolare di organizzare la società a un sistema energetico di un certo tipo, in via di dissoluzione. La conseguenza inevitabile, che stiamo vivendo tutti ormai da diversi decenni, è il tracollo lento ma sistematico del sistema Stato, che si riduce sempre di più ad alcune funzioni poliziesche. I meccanismi sono stati studiati e descritti da tanti. Uno dei pensatori più chiari in merito è
Ugo Bardi .

Ma è un fenomeno che viviamo tutti, e – ripeto – non solo in Italia: succede tanto nella piccola città degli Stati Uniti che non può più asfaltare le strade, come nel Comune di Firenze che non ha più i mezzi per gestire il verde pubblico, come nel comune inglese che chiude gli uffici di pianificazione urbana: non a caso, cito esempi periferici, perché il crollo avviene dalla periferia verso il centro.
Nel caso della scuola in particolare, si sovrappone il processo mediologico, descritto da Debray: cioè il passaggio da un sistema di informazione in qualche modo controllabile dal centro, costruito con un processo di lenta accumulazione tipico del sistema scolastico, a un flusso simultaneo di immagini. Ma qui possiamo anche inserire l’enorme rivoluzione della bioingegneria, che giorno per giorno sta mettendo in dubbio anche di cosa stiamo parlando quando diciamo “esseri umani”, dove la biologia e l’informatica diventano sempre più una struttura unica.
Sono cose enormi, di cui è difficile immaginare la portata; non sono nemmeno cose gradevoli, per molti versi, ma è il mondo in cui stiamo entrando.
Estendendo la riflessione partita dalla scuola…
Sono necessari due elementi.
I processi di cui noi accusiamo i vari Berlinguer, Gelmini o altri, sono semplicementela cronaca locale con cui si realizzano processi grandi come il pianeta.
Il secondo elemento consiste nel cogliere la portata della “decrescita”. Un termine che, per fortuna, è ormai stato accettato in molti ambienti, ma di cui forse sfugge il senso più profondo.
Il rischio è quello di vederlo in termini di emergenza e di scelta: ci sono alcuni ricchi sfrenati che stanno sprecando le risorse del pianeta, ritorniamo all’equilibrio attraverso un comportamento virtuoso: riciclaggio della plastica, o tassazione delle rendite, per porre fine a eccessi vari e creare una società equilibrata.
Non ho nulla contro il riciclaggio, né contro la tassazione delle rendite, naturalmente, ma la vera questione è un’altra: viviamo nel punto di convergenza di varie linee gigantesche di crisi: inquinamento, demografia, esaurimento delle risorse, complessità tecno-informatica, crescente inutilità del lavoro umano, necessità di espansione del sistema per sopravvivere, inevitabile gigantismo finanziario, ad esempio.
Quando queste linee si scontrano, l’intero sistema che abbiamo conosciuto va lentamente in frantumi.
Di solito, di queste cose si parla in termini di minaccia futura: «smettiamo di bruciare idrocarburi, oppure tra cinque anni arriveremo al punto di non ritorno». Questo uso del collasso come “uomo nero”, brandito per risvegliare il Cittadino Responsabile che è in noi, fa dimenticare che con ogni probabilità abbiamo già passato il punto di non ritorno.
E siamo già “nella” decrescita, che non è fatta di nostre scelte virtuose, ma di una catena di catastrofi collegate, cui il sistema risponde attraverso un progetto di “pilota automatico” (come dice Mario Draghi), che può essere finanziario, ma è anche di un Panopticon di controllo elettronico totale e di bioingegneria che reinventa ciò che ancora chiamiamo “essere umano”, e che passa attraverso la costruzione di un’unica mente globale/elettronica.

Il collasso avviene dalla periferia verso il centro: tutte le energie calanti vengono infatti dirottate dalla periferia verso il centro per alimentare il Panopticon.

Quindi si dissanguano rapidamente le periferie delle città, le periferie della salute, le periferie della conoscenza (l’infanzia), le periferie del lavoro, le periferie della ricchezza, poi il collasso arriva sempre più verso il centro e in alto – non a caso inizia oggi a massacrare non solo i disoccupati, non solo gli operai, ma anche il ceto medio; non solo il Sudan, ma anche la Grecia e la Spagna…

Allo stesso tempo, crolla il motivo di essere dello Stato Nazione: la formazione e la tutela di lavoratori, soldati e riproduttori (madri) indispensabili per mandare avanti la baracca: la realtà è che oggi la maggior parte della gente non serve a nulla. Nel nuovo sistema, prevale il privante, cioè colui che priva gli altri dell’accesso ai beni comuni, semplicemente per deperimento del potere istituzionale.

Questo credo che sia, a grandi linee, il contesto entro cui dobbiamo pensare alle scelte politiche, economiche, sociali, scolastiche.
Vengono le vertigini, ed è davvero difficile anche pensare a cosa mai potrà essere “la scuola” in un simile contesto: in cui non ci saranno fondi, in cui non si forma ad alcun futuro concreto (non si può pensare oggi a studiare “per diventare” avvocato o geometra, per dire), in cui le interferenze del dispositivo informatico esterno sovrastano totalmente le voci interne.
Ma sarebbe bene iniziare a pensare in questi termini, per quanto siano spaventosi e ovviamente impopolari.
Tutto questo non significa che occorra in qualche modo accettare inermi lo sfascio della scuola pubblica. È certamente giusto cercare di dirottare i fondi sempre più poveri dello Stato morente verso il tempo pieno nelle scuole, fosse anche l’ultimo volo, anziché verso gli aerei F-35, che nemmeno volano. È giusto chiedere che i soldi che restano vadano al rifornimento della carta igienica nelle scuole, invece che disperderli nelle Grandi Opere Inutili.
Semplicemente, se vogliamo essere davvero alternativi, dobbiamo capire che non basta appellarci alla Costituzione o alla legalità per avere una società migliore: siamo sull’orlo dell’abisso, con i tirannosauri alle spalle, e dobbiamo pensare soprattutto in termini di paracaduti.


4 aprile 2013

dal sito Megachip

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L’UNIVERSITA’ REGNO DELLA DISUGUAGLIANZA di Luciano Governali

 
 
 
 
Dai numeri ai fatti. Un commento al XV Rapporto Almalaurea

Si è tenuto il 12 marzo all’Università Ca’ Foscari di Venezia il convegno di presentazione del XV rapporto di Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. Combinando fonti Istat con le indagini su oltre 400.000 laureati provenienti da tutti e 64 gli atenei italiani, il rapporto continua a rappresentare la fonte più completa per analizzare la situazione lavorativa dei laureati italiani.

Considerando che i numeri sono una cosa e la loro interpretazione spesso un’altra, forniamo la nostra.
Cosa raccontano dicono, a mio avviso, grafici e statistiche?


Leggi la sintesi del rapporto

Innanzitutto che la mobilità sociale in Italia non esiste, e men che meno passa per l’istruzione pubblica. Già l’ultimo rapporto Ocse aveva rilevato come solo il 9% dei laureati fra i 25 e i 34 anni provenisse da famiglie con un basso livello d’istruzione e su questo il rapporto di Almalaurea conclude che “si rileva con forza come l’accesso ai livelli più elevati, ovvero relativi a libere professioni, ruoli dirigenziali o imprenditoriali, risenta della famiglia di origine.”
Come potrebbe essere altrimenti in un paese che taglia quasi del tutto ogni forma di sostegno economico diretto o indiretto (borse di studio ma anche case dello studente, agevolazioni, sussidi di ogni genere) a chi si iscrive all’università?
Ma se da poco si è cominciato a discutere di una fuga dall’università , in riferimento alla storica inversione di tendenza in campo ormai da 5 anni che vede un costante calo delle immatricolazioni, non è soltanto per le scarse possibilità per un famiglia operaia di avere un figlio dottore.
Se in questo momento la laurea è un investimento a rischio, fra qualche anno sarà decisamente fallimentare visto che, sempre secondo l’ultimo rapporto Ocse, la differenza retributiva fra un laureato e un diplomato italiano fra i 25 e i 34 anni è di appena il 9%.
Dal 2008 al 2012 il salario medio di un neolaureato italiano, secondo il consorzio Almalaurea, è passato dai 1050 a 943 euro in un paese in cui, per l’Istat, la soglia di povertà si assesta fra i 990 e i 1.010 euro.
Anche l’operaio vuole il figlio…oltre la soglia di povertà, cara Contessa.
In un simile quadro, l’Italia si conferma regno della disuguaglianza nella disuguaglianza considerando che “Il differenziale di genere è aumentato di 4 punti (nel 2009 era pari al 27%) e quello territoriale si è ulteriormente acuito: nel 2009 un laureato del Nord guadagnava il 9% in più di quello del Sud, mentre nel 2012 il differenziale è del 21%.”
L’ulteriore salto di qualità rappresentato dal rapporto di quest’anno, un’indagine su laureati di 5 anni fa, consacra la condanna che rappresenta essere donna nel nostro mercato del lavoro: dopo cinque anni infatti la differenza retributiva fra laureate e laureati sale addirittura a 400 euro (1256 euro contro i 1623 degli uomini), curioso fenomeno per un paese che produce le prime in numero largamente maggiore dei secondi da più di un decennio.
La laurea non garantisce un lavoro, sicuramente non un lavoro immediato guardando i numeri: nel 2008 il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea era del 14,9, quest’anno è al 23,4, mentre poco più della metà (il tasso di occupazione dei neolaureati è del 55%, era il 60 nel 2008!) ha un lavoro che nel 55,5% dei casi è precario e nel 10% è in nero.
E’ impossibile continuare a stupirsi del crescente rifiuto dell’università se questi sono i risultati di un investimento, quello negli studi, tanto, troppo oneroso: l’Italia è dietro in Europa solo a Olanda, Portogallo e Inghilterra nella pessima classifica dei sistemi di tassazione universitaria oltre i 1100 dollari annuali per studente a tempo pieno.

Rette parallele

Leggendo i numeri del rapporto e confrontandoli con quelli degli anni passati viene spontaneo commentare con gli ormai consueti toni catastrofistici i risultati delle indagini.
Scrivo consueti perché ciò che più impressiona del dibattito pubblico sull’università è la facilità con cui le stesse cifre, inconfutabili in teoria per ciò che rappresentano, possano essere citate e usate per sostenere le posizioni più diverse e soprattutto per ignorare la necessità di una netta messa in discussione delle politiche sul lavoro e l’istruzione degli ultimi due decenni.
Da dati talmente precisi come quelli che Almalaurea, l’Ocse, l’Istat ci consegnano puntualmente dovrebbero ormai derivare analisi oggettive e proposte politiche coerenti ma ascoltando il dibattito politico sull’istruzione sembra che invece nella realtà numeri e parole possano non incontrarsi mai, come due rette parallele.
La crisi economica è diventata ormai lo scudo più efficace dietro cui nascondere i reali motivi di un fallimento strutturale delle politiche di riforma iniziate negli anni ’90, e non potrebbe essere altrimenti visto che poche e isolate negli anni sono state le voci resistenti (in particolar modo dentro l’accademia italiana) allo scempio che si stava facendo del futuro di intere generazioni, eccezion fatta per i numerosi movimenti studenteschi succedutisi dentro le facoltà negli ultimi otto anni ma quelli, si mormora nel palazzo, ci sono e ci saranno sempre, oggi contro quello domani contro qualcos’altro, impossibile dargli credito.
Nonostante le cifre spaventose del rapporto Almalaurea sulla precarietà dei neolaureati e le periodiche pubblicazioni Istat sulla disoccupazione giovanile nel paese, per una delle massime autorità economiche italiane, il governatore della Banca d’Italia Visco, è necessario continuare sulla strada della flessibilità ma con una maggiore protezione, cosa ormai chiaramente contraddittoria, mentre l’università italiana deve continuare a contribuire allo sviluppo di spirito critico, lavoro di gruppo, capacità di risolvere problemi; esattamente tutto (o quasi, considerando che per sopravvivere agli studi bisogna essere esperti dell’ultima dote elencata dal Governatore) quello che non avviene nell’università dequalificata dei mille microesami, della frequenza obbligatoria, dell’assenza di strutture essenziali, degli studenti lavoratori costretti a finire fuoricorso.
La vicinanza temporale della pubblicazione del rapporto e delle elezioni politiche mi costringe ad allargare il ragionamento ai programmi e alle promesse dei maggiori partiti, dove colpisce la sufficienza con cui la tematica istruzione viene trattata: se da un lato il Pd critica “il quindicennio di riforme inconcludenti” dimenticandosi di averlo inaugurato con la riforma del 3+2, il PdL non sembra essere uscito dalla frenesia neoliberista anni ’90 con il solito ritornello su rapporto scuola/impresa e necessità di formazione professionale basato su un fantomatico modello tedesco, citato improprimente per avvalorare la leggenda per cui i paesi forti economicamente sarebbero quelli dove nelle scuole e nelle università si insegna un lavoro, mica si perde tempo con letteratura e roba antica. Considerando che chi scrive è stato insultato dal direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti per essere un perditempo umanistico, mi limito a citare ancora Almalaurea: “la quota di immatricolati nel settore delle scienze umane e dell’educazione, settore spesso preso ad esempio come caso di eccesso di offerta, nel 2010 era pari al 19% in Italia contro una media OCSE del 21% e un valore per la Germania del 23%”.
Sempre il rapporto mira a scardinare alcuni luoghi comuni del dibattito pubblico sull’università. Lo spauracchio della disoccupazione intellettuale ha da sempre accomunato nelle proposte di legge posizioni politiche assai distanti e continua a farlo, considerando che non c’è stata proposta di legge sull’istruzione negli ultimi vent’anni che non abbia posto al centro l’interazione maggiore fra imprese e università, da sempre narrata come risolutoria della disoccupazione giovanile. Su questo persino il consorzio Almalaurea, nato proprio con questo fine, dimostra un’onestà scientifica alquanto rara nei palazzi della politica, stigmatizzando così questa visione del ruolo della formazione universitaria: “La filosofia di fondo che ispira l’idea che il numero di laureati italiani sia adeguato se non addirittura eccessivo è che l’offerta di capitale umano dovrebbe adeguarsi alla domanda espressa hic et nunc dal sistema economico.”

Cosa c’è oltre l’eldorado

Com’è possibile immaginare anche solo l’idea di progresso se l’istituzione sociale che dovrebbe generare innovazione culturale e tecnologica, che dovrebbe presiedere a una formazione sempre più elevata per le nuove generazioni, deve ora adeguarsi alle esigenze di un sistema economico che naviga a vista nella tempesta annunciata e ignorata dai principali attori economici?
E’ allora necessario comprendere quale sia il reale motivo di questa tanta auspicata connessione fra le supposte esigenze dell’apparato economico e i programmi universitari. E’ davvero l’eccesso di laureati potenzialmente disoccupati? Cosa si teme veramente? Forse che possano essere il settore sociale più disilluso e insoddisfatto di una società mondiale senza prospettive di crescita economica e per ciò potenzialmente esplosiva?
Chi scrive ne è sinceramente convinto e qualche numero anche su questo aiuta a capire meglio.
Negli anni ‘60 fu la percezione socialmente diffusa di un progresso economico inarrestabile a generare la voglia di cambiamento sociale del “decennio rivoluzionario”, in un mondo in cui la ricchezza veniva prodotta in proporzioni mai viste e l’esigenza di redistribuzione e maggiore uguaglianza era alla base di ogni sommovimento sociale.
Oggi le coordinate sociali ed economiche appaiono perfettamente speculari rispetto a quelle di quarant’anni fa ma, a mio avviso, ugualmente potenzialmente esplosive: crescita economica pari a zero, disoccupazione crescente, fuga dall’università, nessuna prospettiva immediata o remota di cambiamenti possibili. Ogni fase storica presenta scenari e variabili uniche, dinamiche in parte simili possono riemergere da presupposti e in forme radicalmente opposte.
In Italia è innegabile come una fetta quasi maggioritaria dei giovani abbia voltato le spalle definitivamente a una intera classe politica che, colori e schiaramenti a parte, ha applicato le stesse identiche politiche (come confermato dal sostegno bipartisan alle riforme di Monti): al di là delle analisi sui posizionamenti e i metodi politici, è innegabile quanto affermato sopra se confrontato con le percentuali di voto del M5S di Grillo nelle fasce giovanili, quasi il 38% degli elettori sotto i trent’anni, secondo l’Istituto Technè, mentre nella fascia 18/24 la media è di 47,2, stabilmente oltre il cinquanta nella maggior parte delle regioni maggiori con un picco del 66,8 in Sicilia, guarda caso una delle regioni dove più grande è il divario occupazionale e retributivo con coetanei (laureati e non) delle altre regioni.
Che i giovani siano al centro delle rivolte è un elemento costante da quando esiste la società capitalista, ma la novità sta proprio nella profonda insoddisfazione di giovani con alti livelli d’istruzione al centro delle proteste in tutto il mondo per la mancanza di prospettive che la crisi ha messo a nudo: in paesi con un età media molto bassa (Tunisia ed Egitto), una disoccupazione giovanile superiore al 20% riguarda una percentuale più alta di popolazione rispetto al già elevato livello di 37% rilevato in Italia, paese con una percentuale di giovani di gran lunga inferiore.Lo scenario di instabilità sociale che caratterizza ormai stabilmente alcune aree geografiche, l’area euro mediterranea in testa, dalla Spagna all’Egitto passando per Portogallo, Grecia e Tunisia, ha quindi radici irrisolvibili nell’insoddisfazione e nella rabbia di varie generazioni (parlare di un’unica generazione sotto l’attacco dell’austerità per una fascia d’età dai 18 ai 35 anni è a mio avviso una forzatura) cui per decenni è stato promesso l’eldorado: il capitalismo entrato nella sua fase neoliberista, quella dell’opulenza, del confronto stravinto col grigio comunismo sovietico, dell’informatica a rivoluzionare quotidianamente le nostre vite, della conoscenza e dei saperi come nuovi mezzi di produzione primari da conquistare esclusivamente grazie al proprio “merito individuale” e su cui quindi investire tutto, della flessibilità lavorativa per farti “scegliere la tua professione ideale”.

La crisi ha spazzato vie ogni nube. Dall’altra parte dell’oceano non c’è nessun eldorado, che queste generazioni se ne accorgano definitivamente è forse l’incubo più grande di chi le governa.

La sintesi completa del XV rapporto Almalaurea

31/3/2013

dal sito Atene in rivolta

 

 

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LA “PISTA CIFRATA” DELL’UNIVERSITA’ ITALIANA di Luciano Governali

 



LA “PISTA CIFRATA” DELL’UNIVERSITA’ ITALIANA
di Luciano Governali

La cronaca dell’ultimo autunno ci ha raccontato di un mondo della scuola in subbuglio per i tentativi del governo Monti di scaricare anche sull’istruzione pubblica le tensioni derivanti dai piani di risanamento europei. Ogni singolo provvedimento e dichiarazione dei ministri deve però essere letta alla luce di un disegno complessivo, una visione della società e delle istituzioni della formazione propria di questo governo e probabilmente rimasta invariata, per buona parte del capitalismo italiano, nel corso di decenni.

L’istruzione secondaria e superiore (licei, istituti e università), cui siamo abituati a conferire il carattere “di massa”, nacque nella seconda metà degli anni cinquanta, fra mille resistenze e dibattiti accesi che in pochi anni videro completamente stravolti i posizionamenti politici e le interpretazioni della classe dirigente.
Le prime proposte pubbliche di riforma e intervento sull’istruzione vennero elaborate fra il 1947 (il 12 aprile venne istituita la Commissione Nazionale di Inchiesta dall’Assemblea Costituente) e il 1951 anno in cui venne presentato il primo disegno di legge a firma del Ministro Gonella (1). Senza scendere nell’analisi dettagliata di quelle proposte, è storicamente riconosciuto che l’impianto teorico e politico rimaneva quello che dieci anni prima aveva ispirato la Carta della scuola di Bottai(2): si riproponeva una differenziazione sempre più marcata dei percorsi formativi con un livello d’istruzione secondario diviso in classico e tecnico, oltre all’istituzione di una scuola secondaria normale copia fedele della scuola artigiana prevista da Bottai. Tutto questo non può essere semplicemente ridotto alla continuità nell’operato del Ministero dell’Istruzione, seppur notevole, fra l’immediato dopoguerra e il ventennio, continuità dovuta anche all’ampio corpo di funzionari e dirigenti fascisti di cui si circondò il Ministro Gonella (3).
In realtà l’idea di un’università concepita come ultimo stadio formativo solo per alcuni, di un’istruzione come strumento di cristallizzazione dei ruoli, e quindi delle disuguaglianze sociali, è propria di una certa classe politica di allora senza che ciò abbia subito notevoli mutamenti nel corso dei decenni.
Nell’ottobre del ‘49 il Ministro Gonella esponeva chiaramente la sua idea: «Nella società ci devono essere ufficiali e soldati: non tutti ufficiali e non tutti soldati», il problema stava nel metodo da trovare per selezionare «ufficiali e soldati» senza dichiararlo esplicitamente fra un metodo di selezione democratica e quello delle caste chiuse si prediligeva il secondo (4).
Ma intanto il mondo ribolliva. L’ingresso dell’Italia nel novero delle nazioni industrializzate comportava uno stravolgimento delle relazioni produttive e della funzione sociale di numerose istituzioni, quelle dell’istruzione in primis. L’aumento del reddito pro capite e l’avvento della società dei consumi espandeva il bisogno e la voglia di accedere a sempre più elevati livelli d’istruzione, considerato da allora in poi dalle masse (e non dalla classe dirigente) strumento di ascensione sociale per scardinare una società immobile. Nel frattempo anche la borghesia italiana ravvide l’esigenza di mutare la natura dell’istruzione, in rapporto alle esigenze produttive di un apparato industriale che, in pochi anni, avrebbe portato un paese semiagricolo ad essere la settima potenza industriale del mondo. Studi e pubblicazioni misero in evidenza la necessità di aumentare il numero di laureati (5), mutando i termini di un dibattito politico che in pochi anni avrebbe stravolto le modalità di accesso ad ogni livello d’istruzione: prima l’istituzione della scuola media unificata nel 1962 (6) e la conseguente abolizione dei percorsi formativi professionalizzanti, poi le liberalizzazioni degli accessi all’università realizzata in due tempi e in forma ampiamente bipartisan: la delega delle decisioni alle singole facoltà nel 1961, poi lacompleta liberalizzazione del 1969.
La liberalizzazione rappresentò però un’esigenza mai del tutto accettata da una certa classe dirigente che, già due anni dopo, propose il celebre disegno di legge 2314, noto come legge Gui, il cui impianto si basava su una rigida differenziazione dei percorsi formativi (un primo biennio per il conseguimento del diploma, la laurea e infine il dottorato dopo due anni dalla laurea).
La liberalizzazione e l’annullamento di qualsiasi differenziazione formativa nelle scuole superiori, unita all’enorme espansione dell’utenza universitaria che ne conseguì, determinarono la priorità d’obbiettivi di tutte le politiche riformatrici assunte dai successivi governi: la differenziazione e i molteplici livelli di laurea furono al centro di tutte le proposte di riforma organica dell’univesità dagli anni sessanta ad oggi.
Le esigenze produttive, le spinte della società, la forza delle mobilitazioni del nascente movimento operaio, hanno determinato i profondi mutamenti normativi e strutturali dell’istruzione secondaria e superiore, ma la combinazione anche permanente di questi elementi non è bastata a sradicare dalle menti di un certa classe dirigente l’idea di una società organica, in cui «ogni organo ha una sua differenziazione ed una sua funzione[…]. In una società organica ogni professione ha la sua funzione, e il problema di non confondere organi e funzioni è un problema di vitalità della Società».
Quello che vorrei evidenziare è come una simile concezione della realtà non abbia subito notevoli mutamenti per buona parte dell’elitè economica del paese e ora, dopo il governo tecnico, il parallelismo fra le resistenze di allora ai mutamenti dell’istruzione e la concezione del lavoro e della formazione dei ministri nostrani (che siano tecnici o politici) emerge con maggiore chiarezza.

Il 1° ottobre del 2012, il Ministro del lavoro Elsa Fornero sosteneva l’idea che «laurearsi tanto per laurearsi serve a poco in un mercato aperto come quello europeoSe ci si laurea male si hanno competenze modeste che portano poco lontano. Meglio non inseguire un titolo per essere dottori per forza, ed avere, invece, una formazione tecnica spendibile» e ancora «abbiamo un percorso da fare, perché abbiamo svilito la formazione tecnica e professionale e indotto tutti a pensare che se uno non frequenta l’università e fa una scuola professionale vale meno di un dottore. Non è così. Abbiamo bisogno di ridare piena dignità al lavoro operaio e tecnico». Va quindi creato per il Ministro «un percorso di studio che valorizza il merito, capisce le attitudini personali e le valorizza senza appiattire tutti in una realtà di scarse soddisfazioni e scarso reddito». Prendendo alla lettera la retorica del Ministro Fornero, il lavoro operaio deve godere della stessa dignità di un lavoro non manuale e su questa dichiarazione in astratto non si può che concordare. Il punto è che essa è parte di una visione più complessiva della società in cui il ritorno al lavoro manuale è visto quasi come una condanna ed è staccato dal gravoso problema delle mancate garanzie al diritto allo studio finalizzata a rendere socialmente sempre più accettabile la condizione effettiva dei giovani, diplomati e laureati: una condizione fatta di lavori precari più che dequalificanti rispetto alla propria formazione. La riaffermazione della dignità del lavoro appare così uno strumento retorico per giustificare una politica di governo finalizzata all’espulsione di una fetta rilevante delle giovani generazioni dal mondo del sapere, una retorica colorata dal cattivo gusto degli inviti a non essere troppo schizzinosi nella scelta del primo impiego, come ribadito in un’intervista il 21 ottobre successivo.

Tralasciando l’ipocrisia di un Ministro che parla di dignità del lavoro operaio dopo aver smantellato diritti e tutele dei lavoratori, l’elemento significativo sta proprio nella filosofia di fondo di simili affermazioni, filosofia che già nel 1955 il deputato democristiano Mario Pedini esprimeva in aula: «anziché trovare stimolo al lavoro materiale, anziché comprendere la necessità di una specializzazione agraria, si creano addirittura una mentalità di fuga dal lavoro, nella illusione anzi, pervasa in taluni ceti, di potere in tal modo trovare un riscatto sociale, nel credere che l’impiego sia la via di accesso a una supposta classe sociale superiore».

Dichiarazione dopo dichiarazione emerge l’orizzonte culturale in cui una parte della classe dirigente italiana si forma ed elabora la sua idea di società. Orizzonte rimasto probabilmente invariato a distanza di decenni. Questo governo trova la sua legittimazione proprio in questo, nell’essere considerato la quintessenza del capitalismo italiano, quella che gode del credito internazionale, quella pulita prima e dopo Tangentopoli, la giusta risposta all’incompetenza berlusconiana.
Ed è già di per sé incredibile che avvenga un’operazione mediatica del genere, considerando il livello d’arroganza contenuto in dichiarazioni così sprezzanti, dichiarazioni che rendono palese il totale scollamento fra la realtà sociale e quella vissuta, interpretata e gestita da tecnici e politici.
Se per Berlusconi nel novembre 2011 in Italia la crisi e si suoi effetti erano trovate giornalistiche visto che «i ristoranti sono pieni, si fatica a prenotare un posto sugli aerei», allo stesso modo secondo il Ministro Fornero la precarietà giovanile è tutto un problema di scelte, di lavori da scartare o meno in un mondo del lavoro in cui è necessario ridare dignità a tecnica e manualità, ignorate per decenni da giovani troppo “schizzinosi” e quindi unicamente concentrati nella rincorsa al pezzo di carta.

Un punto di vista alternativo può essere quello che prova a leggerla per davvero la realtà, cercando di cogliere il significato profondo di tendenze e mutamenti che stanno dietro alle cifre. Le cifre ci dicono che la corsa alla laurea sta rallentando, e parecchio, già da anni, e questo è uno dei pochi risultati concreti del decennio di furia riformista in cui è stata immersa l’università italiana. Dal 2004 si è invertita una tendenza decennale che vedeva il tasso di passaggio da scuole e a università sempre positivo, nell’anno accademico 2008/2009 la diminuzione è stata addirittura del 4% rispetto alle immatricolazioni dell’anno precedente e il trend rimane ormai saldamente negativo.
La diminuzione dell’utilità sociale dell’università che si sta diffondendo fra i giovani non è un effetto collaterale ma un preciso obbiettivo perseguito da chi ha iniziato il processo riformatore più di dieci anni fa e oggi lo porta avanti nelle forme più diverse.
Nel già citato lavoro della Commissione Nazionale d’Inchiesta per la Riforma della Scuola del 1949 il problema principale posto dal Ministero agli stessi atenei era trovare una soluzione all’”affollamento delle università”. Il risultato furono le proposte di legge di due deputati democristiani miranti ad innalzare le tasse universitarie, mentre Gonella proponeva la differenziazione fra “diploma dottorale” e “laurea scientifica” di perfezionamento.
Tasse più alte e differenziazione dei percorsi.

Le analogie fra questi provvedimenti e la ricetta proposta per l’università dagli ultimi governi è evidente: il doppio livello di laurea (3+2) per differenziare i percorsi e diminuire il numero degli studenti che rimangono per l’intero ciclo di studi, tutto ciò unito a una liberalizzazione delle tasse sui fuoricorso, provvedimento più rilevante della permanenza di Profumo al Ministero dell’istruzione.
L’attacco mediatico ai fuoricorso condotto dall’attuale ministro dell’istruzione rientra infatti in un preciso disegno di definanziamento totale dell’istruzione pubblica, cui far corrispondere lo spostamento degli oneri economici a carico di quella che rappresenta ormai la metà della popolazione studentesca e la cui permanenza all’università significa per questo ministro (come per tutti quello che lo hanno preceduto) un costo sociale da eliminare.
Sforzarsi di analizzare le dinamiche che portano la metà degli studenti italiani a non poter rispettare i tempi previsti per la laurea pare non essere compito di governi e rettori che continuano ad investire in fondi per il merito e poli d’eccellenza piuttosto che sostenere economicamente quel 72,9% degli studenti che, secondo Almalaurea, durante gli studi è costretto ad accumulare esperienze lavorative, nella maggior parte dei casi occasionali e stagionali. E’ un fatto che solo il 26,6% di chi si laurea non ha mai lavorato e, ovviamente, risulta ridicolo immaginare un arricchimento delle conoscenze degli studenti/lavoratori considerato che meno del 20% degli intervistati riscontra una qualche connessione fra esperienza di studio e di lavoro.
La storia dell’università italiana negli ultimi quindici anni assomiglia sempre più al gioco della settimana enigmistica (la pista cifrata appunto) in cui per trovare la figura finale è necessario unire tutti i puntini.
Sono convinto che i primi puntini siano vecchi di decine di anni e che gli ultimi, purtroppo, li stiamo scoprendo legislatura dopo legislatura.
Nel frattempo i contorni della figura emergono… e sono contorni inquietanti.
L’università ridotta a luogo di trasmissione di conoscenze tecniche e nozionistiche, specifiche ma non specializzanti, con tempi e modalità di studio da scuola media superiore, con costi economici sempre più alti e con un offerta formativa sempre più all’osso e senza strumenti adeguati (mese dopo mese da tutti gli atenei arrivano notizie di corsi chiusi, biblioteche a mezzo servizio, laboratori sospesi e aule inadeguate). Un’università in questo stato è la migliore risposta al decennale problema dell’”affollamento dell’università” da cui infatti sono attratti sempre meno diplomati.
Alcuni piccoli atenei e i poli d’eccellenza continueranno, insieme con le università private sostenute con inquietante continuità dai finanziamenti statali dal 1986, a svolgere quella necessaria funzione di riprodurre la ristretta classe dirigente, qualificata nel periodo di studio come “studenti meritevoli”, mentre al resto degli atenei la funzione di sfornare quella massa di precari necessaria per l’ennesima ristrutturazione neoliberista imposta dalla crisi: sempre secondo Almalaurea nel 2011 erano precari il 55% dei laureati del 2010 e il 42% dei laureati del 2008, mentre secondo l’Istat la disoccupazione giovanile (calcolata sulle liste di collocamento e quindi da considerare come cifra ampiamente ribassata) era superiore al 35%.
La piccola fuga dall’università fabbrica di precarietà è soltanto cominciata.

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NOTE:

1. Per le conclusioni dell’indagine si veda Commissione Nazionale d’Inchiesta per la Riforma della Scuola, Le conclusioni dell’inchiesta nazionale per la riforma della scuola in La riforma della scuola, fascicolo conclusivo, Roma 1949.

2. Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 401-402; Massimo Miozzi, Lo sviluppo Storico dell’Università italiana, Firenze, Le Monnier, 1993, pp. 143-144.

3. Elemento di continuità fortemente contestato in quegli anni dal PCI. Si veda Lucio Lombardo Radice, Due scandali nella scuola, in «l’Unità», 3 gennaio 1950 e Idem, Citazioni dai testi del signor Padellaro, in «l’Unità», 7 gennaio 1950.

4. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, I legislatura, Discussioni, 24 ottobre 1949.

5. SVIMEZ, Mutamenti della struttura professionale e ruolo della scuola. Previsioni per il prossimo quindicennio, Giuffrè, Roma 1961; SVIMEZ,Trasformazioni sociali e culturali in Italia e loro riflessi sulla scuola, Giuffrè, Roma 1962.

6. Sull’istituzione della scuola media unica cfr. Guido Crainz, Storia del miracolo italiano – Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 2003; Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90, Marsilio, Padova 1996; Alberto De Bernardi, Luigi Ganapini, Storia dell’Italia Unita, Garzanti, Milano 2010.

7. A riprova del fatto che la liberalizzazione rappresentasse una scelta obbligata, piuttosto che una precisa strategia politica di democratizzazione radicale dell’istruzione superiore, sta il fatto che le prime facoltà interessate furono quelle del Magistero, al fine di diminuire la disoccupazione dei diplomati delle scuole magistrali per i quali non esistevano adeguate possibilità d’impiego immediato, ai quali fu così offerta la possibilità di proseguire gli studi.

8. Guido Gonella, in «L’ingegnere», Atti del convegno sul tema: Ammissione indiscriminata dei Geometri e dei Periti alle facoltà di Ingegneria e di Architettura, Roma 1960, pp. 866-867.

9. Intervento del Ministro Fornero al Centro Congressi dell’Unione Industriale di Torino in occasione della sedicesima edizione del Premio Optime, Torino 1° ottobre 2012.

10. Il 21 ottobre 2012 intervenendo dal palco di Assolombarda a Milano, il ministro Fornero ha esortato i giovani italiani a non essere troppo schizzinosi nella scelta del lavoro, facendo così riemergere la propria visione della condizione lavorativa dei neolaureati, visione ampiamente distinta dalla realtà, in cui ben poche sono le possibilità di scelta occupazionale: «Non devono essere troppo choosy (in inglese: esigenti, difficili) nella scelta del posto di lavoro. Lo dico sempre ai miei studenti: è meglio prendere la prima offerta di lavoro che capita e poi, da dentro, guardarsi intorno, non si può più aspettare il posto di lavoro ideale, bisogna mettersi in gioco».

11. Atti parlamentari, Camera dei Deputati, II legislatura, Discussioni, Intervento del democristiano Pedini, seduta del 24 settembre 1955.

12. Intervento del Primo Ministro Silvio Berlusconi, in occasione della conferenza stampa al termine del G20, Cannes 4 novembre 2011.

13. Nel 1949 venne presentata la proposta di legge della deputata democristiana Maria Pia dal Canton, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, I Legislatura, Disegni di legge e relazioni, 27 luglio 1949. L’anno successivo il deputato democristiano Ermini insieme al deputato comunista Marchesi presentarono la proposta di aumenti delle tasse universitarie poi diventata legge n. 1551, del 18 dicembre 1951. M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, p. 399.

14. Queste le dichiarazioni del Ministro Profumo del 14 luglio in occasione dell’inaugurazione del Cesimed al Policlinico di Palermo: «Non penso ci vogliano leggi per avviare verso la normalizzazione il Paese, all’Italia manca il rispetto delle regole e dei tempi. Credo che la scuola sul rispetto delle regole debba dare un segnale forte. I fuoricorso hanno un costo anche in termini sociali. E per gli studenti lavoratori. Facciano un part-time. Così facendo si creerebbero cittadini migliori in grado di gestire il proprio tempo al meglio».

15. Il Fondo per il merito è stato istituito con l’Art. 4, legge n. 240 30 dicembre 2010 (legge Gelmini) cui è seguita la creazione nel 2011 della Fondazione per il merito attraverso il Decreto Legge Semestre europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia (l’Art. 9, decreto-legge n. 70 13 maggio 2011) con il compito di gestire il Fondo, e dotata di 1 milione di euro per il suo funzionamento. Nel Decreto Ministeriale n. 71 16 aprile 2012 dei 15.500.000 mln di euro destinati a interventi in favore degli studenti, 9 mln, ai sensi di quanto previsto dallo stesso Decreto Legge all’articolo 9, comma 9, a sostegno del Fondo per il merito di cui all’articolo 4 della legge n. 240 30 dicembre 2010 finalizzato ad interventi di erogazione di premi di studio, buoni studio e prestiti d’onore gestiti dalla Fondazione per il merito di cui al Decreto Legge n. 703 13 maggio 2011 convertito nella legge n. 106 12 luglio 2011.

16. Consorzio Almalaurea, Condizione Occupazionale neolaureati, XIII indagine 2011, Il Mulino, Bologna 2011.

17. Il primo finanziamento pubblico agli atenei privati è del 1986. Articolo 1 decreto legge n. 834 9 dicembre 1986, recante contributi dovuti alle università non statali per l’anno accademico 1985/1986 in cui viene dichiarato “straordinariamente urgente” lo stanziamento di 30 miliardi agli atenei non statali, di cui 12.860 milioni all’Università Cattolica di Milano, 10.230 milioni alla Luiss e oltre due miliardi e mezzo alla Bocconi di Milano, solo per citarne alcuni. Va sottolineato che simili stanziamenti trovarono, nelle aule parlamentari, il sostegno di tutti i gruppi parlamentari, escluso quello di Democrazia Proletaria.


6 febbraio 2013

dal sito  ATENE IN RIVOLTA

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