GENOVA PER NOI… di Stefano Santarelli

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Nonostante che siano passati sedici anni, i fatti di Genova del 2001 sono ancora una ferita aperta per la nostra democrazia. Quel giorno lo stato di diritto venne sospeso dal governo che non tollerò assolutamente un dissenso peraltro pacifico contro il G8.
La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente condannato il nostro paese per i gravissimi pestaggi ed atti di tortura avvenuti durante l’irruzione della Polizia alla scuola Diaz. E’ stata una delle pagine più brutte del nostro paese che videro tra l’altro l’uccisione di un giovanissimo manifestante (Carlo Giuliani) per opera di un carabiniere ausiliario coetaneo della vittima e chiaramente impreparato ad affrontare situazioni del genere.
Non è stata soltanto una delle pagine più brutte, ma anche una delle più oscure. A Genova emergono per la prima volta i “Black Bloc “ degli infiltrati nel movimento contro il G8 e non a caso nessuno di loro fu fermato dalla polizia che arrestò (e torturò) invece centinaia di innocenti manifestanti.
In quel giorno si è visto veramente il vero volto del capitalismo, un volto orrendo ed inumano.
Ma nel ricordare i fatti di Genova dobbiamo anche ricordare quelli di Roma del 15 ottobre 2011.

Quella manifestazione che prendeva il nome degli “Indignati”, diretta espressione di un movimento internazionale che contestava le scelte di austerità e di tagli alle spese sociali che il grande capitale finanziario vuole imporre alle popolazioni del pianeta, produsse un corteo numeroso e partecipato (probabilmente dalle 250/300 mila persone) come non si vedeva da anni.
Ebbene questo corteo pacifico e tranquillo venne sconfitto da poche centinaia di infiltrati che espropriarono questo movimento del diritto di potere scendere in piazza e di potere gridare le proprie ragioni, trasformando così questa manifestazione in un assurdo gioco di guerra. Mentre la polizia si preoccupò solo di difendere i palazzi del potere permettendo così la violenza incontrollata dei Black bloc in tutto il tragitto del corteo e a San Giovanni, dove si doveva concludere la manifestazione, essa caricò con i blindati i manifestanti che si erano nel frattempo lì radunati con lo scopo di dare la mazzata definitiva a questa manifestazione.
Anche quel movimento venne sconfitto grazie anche ai misteriosi Black Bloc (che tanto misteriosi poi non sono).
Quel giorno però emerse anche un malessere giovanile che aveva portato questi ragazzi a scendere in piazza perché non volevano accollarsi il debito delle generazioni precedenti, denunciando quindi il fatto che i debiti e le ricchezze in Italia non sono distribuiti equamente.

Questi giovani, a cui è chiuso il mercato del lavoro e che non hanno nessun futuro di fronte a loro, vedono la concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi, i quali oltretutto, si guardano bene dal pagare le tasse, caratteristica questa fondamentalmente italiana, al contrario dei loro genitori che sono lavoratori dipendenti o pensionati e che si trovano obbligati a mantenerli.
Un settore giovanile che ancora oggi non è rappresentato in alcuna maniera dalle forze politiche e sindacali della cosiddetta sinistra. Credo pertanto che il compito di Risorgimento Socialista, pur con tutti i nostri limiti, sia proprio quello di difendere i loro interessi ed è anche per questo che non possiamo dimenticare quelle giornate a Genova nel 2001.

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TEX SULLE PISTE DI SE STESSO di Teresio Spalla

 
 
 
Leggendo attentamente, e con un raro coinvolgimento, il “Texone” di Andreucci e Boselli ho concluso che….si tratta di un’ottima storia, ricca di avventura ma anche di approfondimenti psicologici di personaggi editi ed inediti. 
Ci sono invenzioni originali e elaborazioni molto singolari di temi e situazioni naturalmente già viste in tante avventure western. 
Ma, anche per questo, si legge tutto d’un fiato e si può ben dire che sia il disegnatore che l’autore abbiano dato fondo alle rispettive competenze per creare un clima di attesa, sul destino dei suoi compagni di questa vicenda e su Tex stesso, da spingere il lettore a voler sapere senza tregua dove e come si va a finire, creando sempre situazioni di tensione che rendono il percorso, dall’inizio alla fine, emozionante e coinvolgente, per concludersi con uno degli epiloghi più intelligenti e appassionati della pur lunghissima saga texiana.L’unica nota di base che mi sento di accreditare agli autori è, coerentemente con la maggior pertinenza storica che ha caratterizato le edizioni di “Tex” negli ultimi venticinque anni, il non aver collocato questa ambientazione (che si svolge addirittura prima di quella che inizia con l’album n°1) nell’America, di per se pittoresca e inedita, degli anni Quaranta del XIX secolo, quando Tex è un fuorilegge che, considerato un pericoloso e abilissimo giovane bandito, presumibilmente non sa ancora quale sarà il suo futuro ed attende un segno del destino a conferma di quale sia il risultato della lotta tra tante diverse sensazioni che si agitano nel suo animo ancora acerbo.
Ma va precisato che la storia (dove comunque non compaiono, tranne le colt e i fucili automatici, altre armi fuori tempo come mitagliatrici, dinamite ecc. ) non si sarebbe prestata all’epoca delle armi ad avancarica poiché il suo lodevole dinamismo è creato proprio dai numerosi scontri armati – duelli, assedi, battaglie – dove la sveltezza di ciascuno e il baluginare delle esplosioni dei colpi sparati costituisce, una volta tanto, una componente essenziale della trama e non un semplice espediente per dare un pò di violenza in pasto al lettore più sanguinario.

“Il magnifico fuorilegge” è un’opera che comunque non deluderà credo nessuno.
C’è tutto quello che si aspetta da una bella storia con Tex con in più un profondo e accorato senso di nostalgia e apprensione per la giovinezza perduta del nostro eroe (ma anche la giovinezza perduta del west, del western, del lettore di sempre e quindi della sua contemporaneità) che tocca momenti lirici e scaturisce in riflessioni particolarmente poetiche.
Raccontarne la trama sarebbe un delitto peggiore dei tanti che vi accadono. Dico solo che inizia come il n°1 : Tex, su uno spuntone di roccia, in sella al suo fido Dinamite (a cui verrà dato finalmente un ruolo di destriero intelligente e indipendente che influirà nella trama e non il solito cavallo-prodigio dei film con Tom Mix) inseguito da uomini della legge.
Successivamente incontrerà due compagni, un vecchio e un giovane, che lo seguiranno fino alla fine. 
Andrà a Robber’s Nest, una città-rifugio di due bande di fuorilegge (molto diversa dalla Robber City di una storia classica che molti ricorderanno) e poi in altri luoghi. 
Avrà a che fare con vigilantes troppo zelanti, ragazze bianche e indiane (anche qui, finalmente, si lascia intuire, pur con pudore e tenerezza, che il giovane Willer non è immune dal desiderio sessuale come da quello di trovare un pò d’affetto e d’amicizia), sceriffi e banditi di svariata e numerosa natura, comanceros, rapitori di fanciulle, gli apaches di Cochise, unico personaggio che poi ricorrerà nella serie e del quale si racconta il primo incontro con Tex e lo stringersi del loro patto di sangue.
Boselli non ha resistito alla sua passione per le citazioni (ce ne sono da diversi film, tra cui il più evidente è “Per un pugno di dollari”; e anche da storie a fumetti sia texiane che altre) e, in qualche punto, a far parlare troppo i personaggi. 
Il che, in un’opera così corposa dove lo sviluppo delle personalità dei personaggi è essenziale, non sarebbe di per se un male se non dicessero, talvolta, cose banali che l’immagine può svolgere più speditamente e anche il lettore meno aduso comprendrebbe egualmente.
Si preoccupa anche troppo di farci sapere che Tex è un cavaliere solitario e l’aggettivo ricorre tante volte da far supporre che l’autore avesse l’ingiustificato timore che il lettore non capisse ciò che è evidente ed è anche alla base di tante situazioni e del loro evolversi.

Ho l’impressione che, inizialmente, la storia iniziasse come tutti i prequel texiani : Tex, Carson, Kit e Tiger intorno al fuoco del bivacco, in mezzo alla prateria sconfinata, tra gli ululati dei coyotes, e lui, l’inossidabile ranger preso dalla melodia del ricordo, che racconta.
Invece si è preferito far apparire questa situazione (dove manca Tiger che pure, in ordine cronologico, fu il primo pard di Tex, prima ancora che si stringa il legame con Carson) solo a p.32. 
E – per quanto alcune domande, che il vecchio amico e il figlio sono costretti necessariamente a fare, riportino l’afflato del passato nel presente con tocchi elegiaci – tutto ciò finisce col divenire inevitabilmente pleonastico di fronte al fervente scorrere degli episodi narrati.
Il disegno di Stefano Andreucci è più che buono tanto da perdonargli (ma ci sarebbe da giurare che l’idea citazionista deriva da Boselli) l’aver ricalcato volti conosciuti del western cinematografico classico e degli anni Settanta che, come ho fatto osservare già in altre recensioni, finiscono col provocare un effetto di straniazione che distrae il lettore (il quale invitabilmente si chiede “ma dove ho già visto questa faccia ?”) dalla trama così trascinante. 
Riconoscibilissimi Debra Paget (l’attrice che emerse con “L’amante indiana” e proseguì con una soddisfacente carriera ricca di personaggi esotici) e L.Q.Jones (caratterista dagli occhi rettilinei che ricordiamo giovanissimo negli ultimi film con Randolph Scott e in tutti gli western di Sam Peckinpah) ma anche molti altri tra cui un Mario Brega preso di peso dal primo successo di Sergio Leone.
Se certamente il disegnatore era stato tentato da far assomigliare il giovane Tex al figlio Kit (anche questo evidente in alcune vignette, specialmente quelle, da pag.35 a pag 49, ambientate nel trading post di Rattlesnake) in quasi tutto il resto del racconto si preoccupa di allungargli il viso, ritoccare il naso e il taglio dei capelli, per riportare il nostro eroe alla sua adolescenziale somiglianza con il Gary Cooper di “L’uomo del west” e “Giubbe rosse”.
Insomma, in definitiva, questa è l’occasione per gustarsi qualcosa che supera i normali livelli delle storie con Tex e ci avvince per tanti particolari avventurosi ed umani al di sopra della media sia della serie regolare che delle storie fuoriserie.
Ho sempre saputo che i “Texoni” sono nati come un’operazione commerciale più che editoriale (storie che potrebbero figurare benissimo nel formato normale ma che, ingigantite, giusticano l’aumento di prezzo) e solo dopo, con il successo dell’operazione, divennero per Sergio Bonelli l’occasione di mettere alla prova con la tradizione texiana disegnatori e sceneggiatori qualche volta adatti, qualche volta meno, qualche volte del tutto fuori sede. Ma anche questo serviva a stimolare la curiosità e la spesa.
In questo caso niente di tutto ciò : lo sceneggiatore è quello abituale e il disegnatore ha già messo mano al personaggio. Però, in quest’occasione, hanno dato il meglio del meglio che era possibile attendersi. 
Quando sono arrivato a p.240 ho avuto la stessa sensazione di quando, da bambino o ragazzino, andavo al cinema a vedere le riedizioni di certi capolavori che non potevo ancora conoscere e, quando uscivo dalla sala, mi sentivo dolcemente stanco e frastornato per lo sforzo interiore a cui il film mi aveva sottoposto, e correvo verso casa, al confine con la campagna, il mio personale west, a riprendere energia con l’invincibile desiderio di indossare il cinturone, mettermi in testa il “cappello da cow boy”, e saltare in groppa ad un destriero che la fantasia faceva cavalcare per i più disagiati dirupi solo per me e la mia nostalgia di un tempo passato che cercavo con volontà disperata di ricostruire e rivivere.

PS 1
Per inciso, nelle pagine introduttive appare il saggio “Come Robin Hood” di Sergio Barbieri. Devo amaramente far notare che alcuni riferimenti cinematografici al bandito detto Black Bart (Il poeta) non sono esatti e carenti in svariate citazioni. Ma questo non c’entra niente con la storia di cui ho appena raccontato. Ne parleremo un’altra volta.

PS 2
Questo è l’album dove compare, perfettamente ricostruito col disegno, il mio caro amico STEFANO JACURTI (nel ruolo del cattivissimo Verdugo, implacabile outlaw e violentatore di fanciulle, da p.112 in poi) l’ultimo e unico autore autentico in Italia di film western ricchi di passione e dedizione al genere e alle sue componenti basilari.

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LA RIVOLUZIONE RUSSA E I SAMURAI di Claudio Taccioli

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Il più bel film sulla rivoluzione russa dell’ottobre ’17 è “I SETTE SAMURAI”(Shichinin no Samurai – 1954).
Akira Kurosawa colloca la storia fra il 1587 e l’anno successivo; l’Era Sengoku del suo Giappone.
Un posto, in quell’epoca, frequentato dai Samurai.
Una casta di intellettuali, esperta nelle arti Zen; come l’arte della scrittura (shodo) e quella del the (cha no yu). A differenza, però, delle altre, esperta nelle arti marziali.
Il samurai viene, infatti, chiamato Bushi: “l’uomo che ha la capacità di mantenere la pace, con la forza militare o letteraria”.

La storia raccontata dal film, è quella dei contadini e dei piccoli artigiani di uno sperduto villaggio giapponese.
A ogni nuova stagione, ricevono la visita di una banda armata (40 banditi) che li obbliga a consegnare il frutto del lavoro.
Sempre più disperati, gli abitanti del villaggio decidono di assoldare dei Samurai che li possano difendere.
Nessuno, però, li vuole aiutare perché non c’è né gloria né ricchezza per l’impresa da affrontare.
Sono disperati e quasi rassegnati al fallimento, quando vedono un Samurai che, pur di aiutare un bambino maltrattato, si rade a zero per fingersi un monaco. Fa, cioè, una cosa assolutamente straordinaria e fuori dal comune per un Samurai: rinuncia al vanto e all’orgoglio dei lunghi capelli. Curati fino all’eccesso da ogni Samurai, come simbolo di appartenenza e segno di bellezza personale.
Kambei Shimada, il Samurai che aiuta il bambino, accetta di aiutarli e ne raccoglie intorno a se altri (cinque) e un giovane contadino che si rappresenta come tale. Sette combattenti, in tutto!
I Samurai organizzano la resistenza e insegnano ai contadini, per quanto riescono, le regole del comattimento: “Chi difende tutti difende se stesso, chi pensa solo a se stesso si distrugge”.
La lotta contro i banditi è dura e senza tregua. I contadini partecipano direttamente, come e con quel che possono, agli scontri cruenti.
Dopo tre giorni di corpo a corpo sanguinosi, in cui cadono 4 Samurai e diversi contadini, i banditi vengono letteralmente annientati.
La sera si festeggia e i Samurai liberano, dopo, il villaggio della loro presenza. Lo restituiscono alla libertà, senza chiedere nulla oltre a quanto promesso.
“Noi Samurai siamo come il vento che passa veloce sulla terra, ma la terra rimane e appartiene ai contadini”.

Il film è la “bella favola” della Rivoluzione Russa, quella detta “bolscevica”.
Come tutte le grandi favole è la rappresentazione onirica e/o mitica della condizione umana calata dentro i passaggi critici della comune esistenza (cappuccetto rosso, dall’infanzia all’adolescenza riproduttiva) o vissuta nelle storie collettive di cambiamento socio-economico traumatico (la guerra di Troia, l’affermazione della società e della cultura micenee nel Mediterraneo orientale).

Il villaggio dei contadini e dei piccoli artigiani è la Russia zarista sottoposta allo sfruttamento violento e disumano.
I banditi sono le classi dirigenti, aristocratico-militari e borghesi.
I Samurai sono i partiti socialisti. Fra questi, quello bolscevico e qualcun altro (i sei Samurai “veri” più Kikuchiyo/Toshiro Mifune, il contadino guerriero!) che per amore, intelligenza delle cose, comprensione della realtà e compassione della condizione umana sfruttata, decide l’azione solidale violenta. La vittoria sarà possibile solo con la partecipazione alla lotta di tutto il villaggio: di tutto il proletariato!
Nessun compromesso, pur proposto, è possibile per i 7 Samurai/bolscevichi.
Solo la lotta determinata e lucida nell’arte dell’agire, è accettata e portata avanti, senza tregua, fino alla vittoria del villaggio.
Liberato infine e salutato dai Samurai superstiti senza richiesta di alcun privilegio, salvo quello già pattuito. Con la sola possibilità di rimanere, come fa Kikuchiyo, per partecipare, come ogni altro, alla sua vita; di riti festivi stagionali e di lavoro.
Alla fine, insomma, il potere appartiene solo ai Soviet dei contadini, degli operai, dei soldati. Come affermò Lenin prima e a giustificazione dell’assalto al Palazzo d’Inverno. Come confermò per sciogliere l’Assemblea Costituente appena eletta da decine di milioni di proletari russi; ma dove i bolscevichi erano in minoranza.

“I SETTE SAMURAI” è la favola bella della Rivoluzione d’Ottobre perché il potere non passò mai dal Partito Bolscevico ai Soviet. Si stagnò là dentro, nel buio delle stanze del Cremlino e delle menti dei capi rivoluzionari. Tanto che divenne la dittatura del partito, meglio del suo Comitato Centrale; più precisamente, di 11/13 dirigenti che controllavano, come una cricca e una banda, l’intero paese.
I metodi di gestione del potere furono autoritari e brutali, al di là dei programmi e dei decreti immediati: la distribuzione, senza indennizzo, delle terre dei grandi proprietari ai contadini che ne erano privi; costituzione dei Tribunali del Popolo eletti fra gli operai e i contadini; eliminazione della polizia sostituita da milizie popolari; separazione fra Stato e Chiesa; matrimonio civile con uguali diritti fra i coniugi; divorzio; pienezza di diritti a tutte le donne; nazionalizzazione di tutta l’economia; le fabbriche affidate agli operai; denuncia e pubblicazione dei trattati segreti internazionali.
La costruzione del nuovo/antico Stato e il governo del paese conquistato furono condotti con una repressione del dissenso e della libera partecipazione, sempre più violenta e tirannica.
Dalla CEKA a Kronstadt, dall’eliminazione di milioni di esseri umani con la carestia programmata in Ucraina al Grande Terrore; con, circa, un milione e mezzo di cittadini sovietici eliminati, fra il 1937/38, dalla vita sociale. Attraverso, sia l’eliminazione fisica che la deportazione nella vertigine dell’universo concentrazionario dei Gulag.

Una tragedia senza fine che il meraviglioso film di Kurosawa non ci vuole raccontare perché gli interessa l’apologo etico e pedagogico di ciò che sarebbe stato meglio; di quello che sarà giusto e utile fare nelle medesime condizione date.
Una “bella favola” come quella che, concretamente, stanno costruendo di qua e di là dell’Oceano Atlantico: in Chiapas e nel Rojava (l’occidente). Una storia che, nelle pratiche di libertà e di partecipazione, non è già più una favola, ma la realtà di un’altra vita possibile. Della rivoluzione in cammino!


18 giugno 2017

dal sito Brescia Anticapitalista

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“STALIN” DI TROTSKY, UN CAPOLAVORO DEL MARXISMO di Alan Woods

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Il 20 agosto del 1940, la vita di Trotsky fu brutalmente spezzata con una piccozza da un agente stalinista. Tra le opere lasciate incompiute vi era la seconda parte del libro Stalin. Questo lavoro è probabilmente unico nella letteratura marxista, in quanto tenta di affrontare alcuni degli eventi più importanti del ventesimo secolo non solo in termini di trasformazioni economiche e sociali epocali, ma nella psicologia individuale di coloro che recitano come protagonisti di un grande dramma storico.

Il rapporto tra psicologia individuale e processi storici fornisce un tema affascinante per gli storici e costituisce la base del lavoro qui presentato. Come si è arrivati al punto che Stalin, che ha iniziato la sua vita politica come rivoluzionario e bolscevico, l’ha conclusa come mostruoso tiranno? Si trattava di un esito preordinato, magari per fattori genetici o dovuto a esperienze dell’infanzia?


Ci sono alcune circostanze nei primi anni di vita di Stalin, accuratamente analizzate da Trotsky, che suggeriscono tendenze verso un temperamento vendicativo, invidioso e crudele, sconfinante nel sadico. Considerate isolatamente, tuttavia, queste tendenze non possono avere un significato decisivo. Non tutti i bambini che sono oggetti di abuso da parte di un padre ubriaco diventano dittatori sadici, così come non tutti gli artisti senza successo, a causa del risentimento per il rifiuto ricevuto dalla società viennese, diventano Adolf Hitler.

Perché tali trasformazioni si verifichino sono necessari grandi eventi storici ed enormi convulsioni sociali. Nel caso di Hitler è stato il collasso economico della Germania dopo il crollo di Wall Street, che gli ha fornito l’opportunità di guidare un movimento di massa della piccola borghesia rovinata e del sottoproletariato declassato. Nel caso di Stalin è stato il riflusso del movimento dopo la Rivoluzione russa, l’esaurimento dello slancio delle masse dopo le grandi fatiche della guerra, della rivoluzione e della guerra civile e l’isolamento della rivoluzione in condizioni di spaventosa arretratezza e di povertà che hanno portato alla crescita di una burocrazia privilegiata.


I milioni di funzionari che hanno usurpato agli operai il potere politico vi si sono posizionati stabilmente come casta privilegiata. Questi parvenu avevano bisogno di un leader che difendesse i loro interessi. Ma questo leader doveva essere un uomo con le credenziali rivoluzionarie – un bolscevico con un solido curriculum: l’uomo giusto per l’occasione. La burocrazia sovietica ha trovato il suo degno rappresentante in Josif Djughashvili, noto al mondo come Stalin.

A prima vista, Stalin non sarebbe parsa una scelta ovvia per sostituire Lenin. Stalin non aveva idee, se non prendere il potere e tenerselo. Aveva una tendenza al sospetto e alla violenza. Era un tipico apparatchik – gretto e ignorante, come le persone i cui interessi rappresentava. Gli altri dirigenti bolscevichi avevano trascorso anni in Europa occidentale, parlavano correntemente diverse lingue straniere e avevano partecipato in prima persona allo sviluppo del movimento operaio internazionale. Stalin non parlava lingue straniere e anche il russo lo parlava in modo incerto, con un forte accento georgiano.


Questo paradosso è spiegato da Trotsky. Un’epoca rivoluzionaria esige capi eroici, ottimi scrittori e oratori, pensatori audaci, in grado di tradurre in parole le aspirazioni inconsce o semi-coscienti delle masse alla trasformazione della società, traducendoli in slogan adeguati. È un’epoca di giganti. Ma un periodo contro-rivoluzionario è fatto di riflussi, ritirate e demoralizzazione. Non richiede giganti ma protagonisti di statura di gran lunga inferiore. È l’età degli opportunisti, dei conformisti e dei traditori.

In tali circostanze, uomini capaci di una visione audace e individui eroici non sono più necessari. La mediocrità regna sovrana, e Stalin era la mediocrità suprema. Naturalmente, questa definizione non esaurisce le sue qualità, o non sarebbe mai riuscito a elevarsi sopra persone che lo sovrastavano intellettualmente e politicamente. Lui però possedeva volontà e determinazione di ferro, era caparbio, aveva una sete indomabile di potere e doti innate di manipolazione delle persone, sfruttando il loro lato debole, attraverso manovre e intrighi.


Tali qualità, nel contesto di un’ondata rivoluzionaria, non contano quasi nulla. Ma nella bassa marea della rivoluzione, possono essere utilizzate con grande efficacia. Il modo in cui questa legge si applica al caso di Stalin viene spiegato da Trotsky mettendo accuratamente assieme moltissimo materiale tratto sia dai suoi archivi personali sia da molte altre fonti, tra cui le memorie di bolscevichi, stalinisti, menscevichi e rivoluzionari in particolare georgiani che conoscevano l’uomo intimamente.


Il ruolo dell’individuo


Il tentativo di ridurre i grandi eventi storici a singole personalità è superficiale e di solito riflette l’incapacità di affrontare la storia da un punto di vista scientifico. Il materialismo storico identifica la forza propulsiva centrale della storia nello sviluppo delle forze produttive. Questo però non significa negare il ruolo dell’individuo nella storia. Al contrario, il processo storico può essere espresso solo attraverso l’azione di uomini e donne.


Scoprire la complessa interazione tra il particolare e il generale, tra le personalità e i processi sociali, è un compito difficile ma possibile. Marx ha affrontato brillantemente questi aspetti nel XVIII Brumaio di Luigi Bonaparte, dove mostra come, in determinate circostanze storiche, una mediocrità, come l’uomo che Victor Hugo chiamava “Napoléon le Petit” (Napoleone il Piccolo), fu in grado di arrivare al potere. Mai fu meglio esaminato il modo preciso in cui i singoli interagiscono con i processi oggettivi.

La personalità di Stalin ha deciso il destino dell’Unione Sovietica? È sufficiente porre la questione per esporne la completa falsità. La sconfitta della rivoluzione europea ha fatto sì che il regime di democrazia operaia stabilito dalla Rivoluzione d’Ottobre non potesse sopravvivere. Una volta che la rivoluzione fu isolata in condizioni di spaventosa arretratezza economica e culturale, l’ascesa della burocrazia era inevitabile, con o senza la presenza di Stalin. Si può dire però che la natura particolarmente orribile del regime, i suoi metodi sadici e la scala mostruosa del Terrore fu determinata grandemente dal carattere di Stalin, dalla sua paranoia e sete di vendetta.


Stalin è uno studio affascinante del modo in cui il peculiare carattere di un individuo, le sue caratteristiche personali e la sua psicologia, interagiscono con grandi eventi. Per questa ragione, ha avuto molti detrattori. Ci sono stati molti tentativi di presentare Stalin come un lavoro motivato dal desiderio di Trotsky di screditare il suo nemico al Cremlino, o per lo meno come un resoconto in cui i fattori di natura personale o psicologica hanno reso impossibile uno studio obiettivo. Tale giudizio superficiale fa un grave torto all’autore. Trotsky rispose in anticipo a queste critiche scrivendo: “Il punto di vista che ora occupo è unico. Ritengo pertanto di avere il diritto di dire che non ho mai nutrito un sentimento di odio verso Stalin. In certi ambienti molto si dice e si scrive sul mio cosiddetto odio per Stalin che a quanto pare mi riempie di giudizi cupi e problematici. Posso alzare solo le spalle in risposta a tutto questo. Le nostre strade si sono divise così tanto tempo fa che i rapporti personali che c’erano tra noi si sono esauriti da molto tempo. Da parte mia, e nella misura in cui io sono lo strumento di forze storiche, che mi sono estranee e ostili, i miei sentimenti personali nei confronti di Stalin sono indistinguibili dai miei sentimenti verso Hitler o verso l’imperatore giapponese.” (Stalin, attuale edizione inglese, capitolo 14: ‘La convenzione termidoriana’; paragrafo: ‘La vendetta della storia’).


È caratteristico di storici accademici nascondersi dietro una facciata di finta imparzialità. Eppure, ogni storico scrive da un particolare punto di vista. Questo è particolarmente evidente nelle opere sulla Rivoluzione russa – ma anche sulla Rivoluzione francese, a ben pensarci. A riprova di questo possiamo indicare la marea di libri “eruditi” sulla Rivoluzione russa, sfornati ogni anno, soprattutto dopo la fine dell’Unione Sovietica, che pretendono di fornire la prova incontrovertibile che Lenin e Trotsky erano mostri assetati di sangue e che l’Unione Sovietica ha creato solo il Kgb e i gulag.

Basta grattare la superficie perché cada la presunta maschera di oggettività accademica, rivelando le orripilanti caratteristiche di un fanatismo anti-comunista. In contrasto con l’ipocrita pseudo-oggettività di storici accademici, Trotsky affronta la questione della controrivoluzione staliniana come marxista e rivoluzionario. C’è contraddizione tra l’avere un forte interesse per la trasformazione della società e provare a dare una valutazione oggettiva degli eventi storici e del ruolo degli individui nel processo storico? Lasciate che Trotsky risponda da sé:


”Agli occhi di un filisteo, il punto di vista rivoluzionario equivale in pratica all’assenza di obiettività scientifica. Noi pensiamo esattamente l’opposto: solo un rivoluzionario – a condizione, naturalmente, che parta da un metodo scientifico – è in grado di mettere a nudo le dinamiche oggettive della rivoluzione. Apprendere, più in generale, non significa contemplare ma agire. L’elemento della volontà è indispensabile per penetrare i segreti della natura e della società. Proprio come un chirurgo, dal cui bisturi dipende una vita umana, distingue con estrema cura tra i vari tessuti di un organismo, allo stesso modo un rivoluzionario, se ha un atteggiamento serio verso il suo compito, è tenuto ad analizzare la struttura della società con la massima coscienza, a capirne le funzioni e i riflessi” (La rivoluzione cinese, 1938).

Sulla nuova edizione


Nessuno potrà mai dire di aver realizzato l’edizione definitiva di Stalin. Rimarrà per sempre un’opera incompiuta dal giorno dell’assassinio di Trotsky. Quello che possiamo dire senza tema di smentita è che questa è la versione più completa del libro che sia mai stata pubblicata.
Ci sono state altre edizioni del libro, ma mai soddisfacenti, alcune addirittura fuorvianti. In preparazione di questo progetto, abbiamo confrontato le traduzioni di altre versioni, ognuna inadeguata in modo diverso. Abbiamo riunito tutto il materiale disponibile in inglese negli archivi Trotskij e lo abbiamo integrato con ulteriore materiale in russo.


La nuova edizione contiene 86mila parole in più, un aumento di circa il trenta per cento rispetto alle edizioni in commercio. Questo per quanto riguarda il libro nel suo complesso, ma nella seconda parte, dove si trova quasi tutto il nuovo materiale, il testo è stato aumentato di circa il novanta per cento.

Se Trotsky non fosse stato ucciso nel ’40, è chiaro che avrebbe prodotto un lavoro infinitamente migliore. Avrebbe fatto una rigorosa selezione del materiale a disposizione. Come un abile scultore avrebbe rifinito più volte il lavoro, fino a raggiungere l’altezza abbagliante di un capolavoro. Non possiamo sperare di raggiungere queste vette. Non sappiamo quale materiale avrebbe scelto o rifiutato quel grande uomo. Ma abbiamo sentito l’obbligo storico di mettere almeno a disposizione del mondo tutto il materiale esistente.

Nonostante tutte le difficoltà, questo lavoro è stato di grande valore educativo. Abbiamo trovato in molti brani che vennero scartati, valutandoli di scarso interesse, percorsi interessanti nel pensiero di Trotsky. Come le ultime opere di Marx, Engels e Lenin, gli scritti di questi ultimi anni di Trotsky sono il prodotto di una mente matura che era in grado di attingere a tutta una vita di ricca esperienza. Di particolare interesse sono le sue osservazioni sulla dialettica e la teoria marxista nella sezione “Stalin teorico” che, per quanto ne so, non sono mai stati pubblicati prima.


Nel mettere a disposizione per la prima volta una grande quantità di materiale che era stato arbitrariamente escluso dalle edizioni precedenti di Stalin e nascosto in scatole polverose per tre quarti di secolo, stiamo onorando un debito verso un grande rivoluzionario e fornendo allo stesso tempo un ricco materiale, inedito e prezioso, per la nuova generazione che si sforza di trovare le idee e il programma per cambiare il mondo. Questo è l’unico monumento che Trotsky avrebbe mai voluto alla sua memoria.

Londra, 18 Maggio 2016

dal sito Marxismo.net

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IL PROGETTO INSIDIOSO DELLA MINISTRA PINOTTI di Antonio Moscato

Giulio Marcon sul Manifesto di oggi critica la ministra Pinotti, ma il titolo sostiene che lei abbia fatto un autogol parlando di servizio civile obbligatorio. Non ne sono sicuro. La proposta è probabilmente vaga e imprecisa proprio per offrire spazio ai commenti che la tirano nella direzione auspicata dalla Pinotti, a partire da quello del capo di Stato maggiore generale Claudio Graziano. Forse non è neppure condivisa da tutto il governo, dato che sembra sia stata apparentemente respinta dal sottosegretario Luigi Bobba, che ha la delega per il servizio civile, ed è di provenienza ACLI, che a un’estensione a tutti i giovani preferirebbe un semplice aumento dei fondi per il servizio volontario esistente.

L’idea era stata lanciata già in occasione di un precedente incontro di alpini, familiari e simpatizzanti indetto dall’ANA (Associazione Nazionale Alpini) a Pordenone, nel maggio 2014. L’ANA aveva più esplicitamente proposto la reintroduzione del servizio militare obbligatorio, per compensare lo scarso afflusso di volontari, ma si era già pensato di usare i “volontari del servizio civile” nelle “missioni umanitarie all’estero. Ne avevo parlato in Servizio “civile”, doppio inganno, ma evidentemente l’operazione annunciata non è partita nella misura che si voleva. Il sottoprodotto è però quello di un martellamento propagandistico che collega in varie forme il servizio civile all’esercito. Così al raduno annuale degli alpini a Treviso, come al solito partecipatissimo grazie a un grande sforzo pubblicitario concentrato nei territori dove tradizionalmente avveniva il reclutamento, il generale Graziano, parlando dell’attuale situazione internazionale, ha evidenziato che “la risposta alle nuove sfide comporta la necessità di avere iniziative e strutture multinazionali, e nelle nostre Forze Armate ne abbiamo un esempio con la Brigata alpina Julia, perché le sfide come il terrorismo richiedono una risposta comune e globale, una risposta che non comprenda solo i militari ma tutti gli organismi dello Stato”.

Il generale Graziano ha ricordato che “10.000 militari sono impegnati in Italia a supporto delle forze di polizia di cui 3.000 sono a Taormina per contribuire a garantire una adeguata cornice di sicurezza durante il prossimo summit del G7. 8.000 invece sono quelle attualmente impegnate in tutti i teatri operativi internazionali”.

La riproposizione di una qualche forma di servizio civile obbligatorio, declinato in termini di utilizzo dei giovani in ambiti di sicurezza sociale “non è un dibattito obsoleto”, tanto che in Europa “si è riaperto non solo in Svezia ma anche in Francia, dove, alle ultime presidenziali, l’argomento è stato toccato da molti candidati, compreso Macron”, ha affermato al raduno di Treviso la Pinotti, che non manca mai a questi bagni di folla imbevuti di esaltazione del corpo, e che in questa occasione ha potuto dichiarare esplicitamente di essere personalmente favorevole alla obbligatorietà per tutti del servizio civile senza nominare come in passato il ritorno alla leva generale. Ma ha chiarito bene cosa si propone come programma minimo.

“Da un lato – ha sottolineato la Pinotti – per le missioni internazionali abbiamo bisogno di militari professionalmente preparati. Ma l’idea di riproporre a tutti i giovani e alle giovani di questo paese un momento unificante con un servizio civile che divenga allargato a tutti ed in cui i giovani possono scegliere dove meglio esercitarlo – ha concluso – è un filone di ragionamento che dobbiamo cominciare ad avere. Vi sono molti ambiti nella Difesa che si possono prestare anche a una presenza volontaria, in forme che vanno delineate”.

Ecco la sostanza della proposta: attirare l’attenzione su una parte irrealizzabile (un servizio civile davvero obbligatorio per tutti i giovani, che costerebbe troppo e soprattutto scatenerebbe molte proteste tra coloro che dopo la fine degli studi si trovassero obbligati ad attendere un anno prima di cominciare la faticosa ricerca di un lavoro) facendo passare intanto l’idea che è bene ed è nell’interesse del paese che i volontari del servizio civile affianchino esercito e polizia qui e all’estero. Le molte iniziative propagandistiche di vari corpi militari verso le scuole secondarie sono complementari al progetto.

La Pinotti ha già sponsorizzato un’altra operazione del genere, collocando i corpi della Croce Rossa sotto la tutela del ministero della Difesa (alla faccia delle consuetudini e delle norme che ne dovevano garantire imparzialità e neutralità internazionali); ha poi appoggiato un paio di anni fa un accordo tra l’associazione scoutistica AGESCI e la Marina militare che assegnava a quest’ultima un compito educativo formativo (vedi La Marina militare vuole arruolare gli scout). Oggi, facendo vago riferimento ad altri paesi europei come la Svezia o la Francia (ma di paesi che stanno ampliando le forze armate ne poteva indicare molti di più) spiega abbastanza chiaramente qual è il suo progetto: “Da un lato per le missioni internazionali abbiamo bisogno di militari professionalmente preparati. Ma l’idea di riproporre a tutti i giovani e alle giovani di questo paese un momento unificante con un servizio civile che divenga allargato a tutti ed in cui i giovani possono scegliere dove meglio esercitarlo – ha concluso – è un filone di ragionamento che dobbiamo cominciare ad avere. Vi sono molti ambiti nella Difesa che si possono prestare anche a una presenza volontaria, in forme che vanno delineate”.

In sostanza, si cerca di trovare nuove forme di reclutamento, visto che per il momento l’afflusso di volontari è molto al di sotto delle ambizioni dei vertici militari e del governo, soprattutto se ci si prepara a spostare la frontiera tra Europa e Africa subsahariana a sud della Libia, e si guarda con inquietudine all’alleata ma concorrente Germania, che sta aumentando la sua presenza nel Mali, con una nuova base a Gao, sotto la copertura (facilmente concessa) dell’ONU. Altri contingenti tedeschi (a parte quelli francesi, che sono di casa da sempre) sono presenti in Nigeria, Ciad, Niger, Burkina Faso, e altri paesi, visitati spesso dall’attivissima ministra della Difesa federale Ursula von der Leyen.

Insomma la proposta di estensione a tutti i giovani italiani del servizio civile, obbligatorio o no, è forse solo un cavallo di Troia per preparare un’operazione infame di respingimento violento di centinaia di migliaia di sventurati, rispediti nel deserto di un continente disastrato (da noi europei), e a cui verranno in un modo o nell’altro fatti pagare i miliardi in più “necessari per la nostra sicurezza”. Oltre alla possibilità che, tra i disperati respinti dall’azione congiunta e brutale delle milizie libiche, e dei nostri militari (e ausiliari civili) scarsamente preparati per un simile difficile e inquietante compito, trovi spazio proprio chi vuole reclutare nuovi incontrollabili combattenti da rimandare in Europa.

16 Maggio 2017  

La vignetta è del Maestro Mauro Biani

dal sito Movimento Operaio

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Macron! Et après? di Stefano Santarelli

 

 

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Come era facilmente prevedibile Emmanuel Macron è il nuovo presidente della Repubblica francese battendo nettamente la leader del Front national, Marine Le Pen con il 66.1% contro il 33.9%. Ma nonostante questa vittoria, anzi grazie anche a questa vittoria, la crisi della Quinta repubblica rimane tuttora irrisolta infatti è da registrare il record di astensionismo che non è mai stato così alto in una elezione presidenziale: il 25% a cui si devono aggiungere il 12% delle schede bianche testimoniando così l’esistenza di una Francia che non si riconosce nell’alternativa Macron- Le Pen.
Più che un voto a Macron, lo sconosciuto ministro dell’Economia del 2° Governo Valls, questo è stato un voto contro la Le Pen. Il Front national ha raddoppiato comunque i voti rispetto al precedente ballottaggio del 2002 quando si presentò con il padre di Marine contro Chirac. E bisogna riconoscere che questa formazione neo fascista si sta sdoganando nella politica francese: è stata ricevuta all’Eliseo dopo i gravi attentati terroristi dell’Isis a Parigi, è l’organizzazione politica che raggiunge il più alto consenso all’interno della classe operaia (sic), è nel discorso di vittoria quando la Le Pen ha raggiunto l’obiettivo del ballottaggio vi è stata un netta rivendicazione per prendere l’eredità di Charles De Gaulle una eredità che i neo gollisti de Les Républicaines hanno completamente anacquato negli ultimi anni. E se il Front national riprende le classiche tematiche dell’estrema destra: la priorità nazionale, il razzismo anti-immigrato soprattutto anti-mussulmano che restano al centro della sua politica non lo si può però definire un partito fascista classico e non a caso dopo queste elezioni il FN ha deciso di cambiare il suo nome.
Come ho già scritto nel mio precedente articolo il fallimento elettorale dei due tradizionali partiti che negli ultimi quarant’anni hanno governato la Francia: Les Républicaines e il Partito socialista i quali non sono riusciti ad arrivare al ballottaggio sono la prova tangibile della crisi mortale delle istituzioni francesi.
Certamente se Les Républicaines non avessero candidato un François Fillon sputtanato da vergognosi scandali nepostici i neo gollisti sarebbero riusciti ad arrivare al ballottaggio mentre diverso è il caso dei socialisti che hanno pagato il tradimento delle speranze che il popolo francese aveva riposto con l’elezione di Hollande. Infatti la politica imperialista e capitalista del presidente “socialista” ha superato in nefandezze quella del suo predecessore Sarkozy e bisogna ammettere che questo non era facile.

Però bisogna anche ammettere che la sinistra francese ha dato prova di un indiscutibile masochismo. Infatti la candidatura di Mélenchon che ha preso più del 19% dei voti al primo turno poteva andare tranquillamente al ballottaggio se il Partito socialista che conosceva i sondaggi fallimentari del loro candidato Hamon (il quale ha preso un misero 6,3% contro il 28.63% delle presidenziali del 2012) avesse ritirato la propria lista appoggiando quindi la France insoumise. E se a questo si aggiunge la stupida autoreferenzialità di Lutte ouvrière e del Nouveau parti anticapitaliste che non sono entrate nella France insoumise pur di presentare le proprie liste separate ottenendo soltanto un inutile 2% il quadro è completo.
E come ho già scritto non si comprende lo scioglimento della vecchia LCR che nelle elezioni europee del 2005 aveva ottenuto il 5% dei voti per fare nascere il Nouveau parti anticapitaliste che aveva ben altre ambizioni e che oggi possiamo affermare con tutta tranquillità ha fallito il suo compito.

Ma detto questo il nuovo presidente francese nonostante questa netta vittoria appare estremamente debole. Non ha dato fino ad ora prova di una grande personalità e sia perché la France en marche non è un partito organizzato e strutturato in modo tale da poter vincere le prossime elezioni politiche a giugno se non si allea con i neo gollisti e la frazione socialista che ha appoggiato Macron.
Queste elezioni però devono rappresentare per la sinistra un’occasione per un pronto riscatto, ma la condizione unica e irrinunciabile è quella di superare un inutile e stupido settarismo. E’ quindi necessaria la costruzione di un nuovo Fronte di sinistra che punti a vincere le prossime elezioni del 11 e 18 giugno mettendo come parola d’ordine la costruzione di una nuova repubblica francese non più caratterizzata dall’attuale monarchia presidenziale e basata su nuovi diritti sociali, personali ed ecologici.

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PER UN PRIMO MAGGIO DI LOTTA CONTRO I PADRONI di Chiara Carratù

Oggi più che mai è necessaria una campagna per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario ed è necessario l’intervento dello stato per creare occupazione per tutti/e. Oggi più che mai è necessario un progetto politico che si ponga l’obiettivo di un forte cambiamento sociale e dell’abbattimento del capitalismo

Il primo maggio nella storia

Il primo maggio è nato alla fine dell’800 come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori e lavoratrici che, senza barriere sociali e geografiche, si sono uniti per rivendicare i loro diritti e per migliorare la loro condizione.
La data scaturì da una proposta concreta le cui parole d’ordine furono sintetizzate nello slogan, coniato in Australia nel 1855, “otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore per dormire”.
La lotta per l’abbassamento dell’orario di lavoro è stata, nella storia del movimento operaio di fine Ottocento e Novecento, dura e non tutti i paesi arrivarono nello stesso momento a leggi che introducevano la giornata lavorativa di otto ore. Furono necessari anni di lotte e una mobilitazione duratura e prolungata nel tempo che costò la vita anche a molti lavoratori e lavoratrici.
Il primo stato ad approvare una legge che introduceva la giornata lavorativa di otto fu lo stato dell’Illinois nel 1866. La classe operaia statunitense fu protagonista di scioperi e manifestazioni poderose che aprirono la strada alla classe operaia europea, francese in particolare, che proprio alla fine dell’800 fu protagonista della straordinaria esperienza della Comune.
Anche l’Italia, scossa da una dura crisi economica, fu attraversata da questo movimento; il primo maggio 1890, ad esempio, coincise con i moti del pane che ebbero il loro tragico epilogo a Milano con Bava Beccaris che fece sparare sulla folla. A Napoli, nell’aprile 1890 venivano diffusi volantini in cui si leggevano queste parole sul primo maggio che stava per arrivare: “in quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lasceranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, i proletari sono tutti concordi nel voler migliorare la propria sorte”.

Il movimento operaio che lottò per migliorare la propria condizione lavorativa e di vita si diede delle strutture organizzative forti e a sostenerlo c’erano le Internazionali dei lavoratori. Furono costruite così le basi che gli permisero di mutare i rapporti di forza con i padroni: fu quel movimento operaio a preparare il terreno alla rivoluzione russa del 1917, alle occupazioni delle fabbriche durante il biennio rosso in Italia, alla grande stagione di scioperi che, sempre negli anni 20, stava sfociando in un processo rivoluzionario in Germania. Peraltro fu proprio nel 1919 che in Italia venne stipulato l’accordo, tra la Fiom e la Federazione degli Industriali metallurgici per le 48 ore settimanali. Prima di questo accordo la settimana lavorativa, in alcuni stabilimenti siderurgici, arrivava fino a 72 ore.
Fu per sconfiggere quel movimento che i padroni legarono le loro sorti al fascismo; fu per la paura di perdere il potere che il grande capitale preferì veder precipitare l’Europa nel baratro della seconda guerra mondiale. Tuttavia né il fascismo, né la guerra erano riusciti a cancellare dalle coscienze la memoria del Primo Maggio. Anzi, per quanto riguarda la storia italiana, proprio quest’anno ricorrono i settant’anni dalla strage di Portella della Ginestra dove gli uomini del bandito Giuliano spararono contro i lavoratori, soprattutto contadini, che stavano assistendo ad un comizio. Manifestavano contro il latifondismo, stavano sostenendo l’occupazione delle terre e rivendicavano ancora una volta una riforma agraria sempre promessa e mai realizzata. In quella strage morino tredici persone, tra cui anche donne e bambini.

Se si guarda alla storia e alle lotte che i lavoratori e le lavoratrici hanno condotto da quando è nato il capitalismo, si noterà che queste sono state sempre spinte dalla necessità e dal desiderio di migliorare la propria condizione materiale e di vita. La classe lavoratrice, in fondo, ha sempre cercato di sottrarsi allo sfruttamento che ha nel tempo di lavoro il suo cardine.

La svolta degli anni 60 e 70

I momenti più avanzati della lotta di classe e il miglioramento delle condizioni materiali di lavoratori e lavoratrici sono stati il frutto del superamento delle divisioni che il capitalismo ha sempre esercitato sulla classe e di un’organizzazione forte e decisa a non cedere. Lo scontro con la borghesia non è mai stato facile e il percorso per le riforme non è mai stato scontato e definitivo. L’ultima grande stagione di lotte, quella degli anni 60 e 70, ha strappato la conquista della settimana di 40 ore, di contratti collettivi nazionali che miglioravano fortemente la condizione salariale e normativa della classe operaia, dello statuto dei lavoratori, delle 150 ore per la formazione, del tfr, della scala mobile e del sistema pensionistico retributivo. Anche la società risentì del cambiamento dei rapporti di forza e del protagonismo del movimento operaio perché proprio in quegli anni si ottenne la riforma della scuola che aboliva il doppio canale e l’avviamento professionale, l’istituzione del sistema sanitario nazionale, una riforma fiscale fortemente progressiva, la riforma del diritto di famiglia, il divorzio e l’aborto.

Oggi, alla vigilia del primo maggio 2017 di queste conquiste non è rimasto quasi nulla e con esse sembra essere stata cassata anche la memoria delle lotte e della forza che può esprimere una classe lavoratrice cosciente e unita.

La controrivoluzione liberista

La crisi economica cominciata nel 2007 e il pieno dispiegamento dei provvedimenti presi in questi anni per salvaguardare i profitti e le rendite, a scapito di salari e diritti, hanno determinato un cambiamento della condizione materiale di chi lavora. L’approvazione del Jobs Act e della Buona Scuola hanno mutato completamente il quadro dei rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro: hanno contribuito ad un’ulteriore divisione dei lavoratori e delle lavoratrici, già scoraggiati e demoralizzati da anni di compromessi sindacali a ribasso e sconfitte. Le direzioni sindacali certamente hanno in questo una pesante responsabilità politica; non solo non hanno costruito un grande movimento di lotta unitario contro gli attacchi della Confindustria ma hanno anche contribuito a mandare su dei binari morti quelle mobilitazioni e quagli scioperi in cui c’era stata una forte partecipazione e disponibilità a non arrendersi, come nel dicembre 2014 contro il Jobs Act e il 5 maggio 2015 contro la Buona Scuola.

L’aumento della precarietà, la disoccupazione galoppante, la cancellazione di molte tutele, in primis dell’articolo 18 che ha svuotato lo statuto dei lavoratori, sono gli effetti di una vera e propria guerra che le classi dominati stanno conducendo contro le classi lavoratrici e popolari. Questa guerra non sta facendo prigionieri ma sta generalizzando l’insicurezza sociale, sta rubando il futuro alle giovani generazioni e sta aumentando il divario di classe tra ricchi e poveri.
Molti dati, infatti, dicono che è aumentato il numero dei poveri assoluti ma anche che, da quando è cominciata la crisi, molti hanno aumentato il loro reddito. Questo è il frutto anche di anni di modifiche fiscali che hanno reso più iniquo per lavoratori e classi popolari il versamento delle tasse che pesa soprattutto sulle loro spalle. La diminuzione delle tasse alle imprese è coincisa anche con un taglio al welfare e alla sanità e con un generalizzato disinvestimento del pubblico che, laddove non riesce a privatizzare, abbandona completamente il campo lasciando anche molte infrastrutture al proprio destino.
Le buche nelle strade, la ricostruzione mai realizzata dei paesi che sono stati colpiti dal sisma, i cavalcavia che cadono, i continui disastri idrogeologici sono la fotografia più nitida della ferocia del capitalismo e dell’effetto dei tagli agli enti pubblici.

Tutto questo sta avvenendo anche in mutato quadro istituzionale: il centralismo dell’esecutivo, l’azzeramento del dibattito parlamentare, l’uso massiccio di decreti legge e di voti di fiducia sono funzionali ad un sistema capitalista che non tollera più i meccanismi della democrazia borghese garantiti dalla Costituzione del 1948. Questo processo doveva trovare pieno compimento nella riforma costituzionale Renzi – Boschi che il voto referendario del 4 dicembre ha per ora bloccato.

Il nuovo razzismo e la tragedia dei migranti

In quest’incertezza e in questa insicurezza trova terreno fertile la propaganda xenofoba e razzista di Salvini che è parte di quel vento reazionario che soffia in Europa. La costruzione dell’immagine del profugo come nemico e l’odio razzista nei confronti del diverso sono funzionali al rafforzamento del potere delle classi dominanti a cui fa comodo vedere che il nemico viene individuato nel migrante e non nel padrone che ci sfrutta ogni giorno.

Gli interventi militari condotti dall’Europa, dagli Usa ma anche di altre potenze regionali attente ai propri interessi in Medio Oriente ed in Africa hanno prodotto tragedie infinite e milioni di migranti che nel tentativo di sfuggire ai conflitti si rivolgono all’Europa dove trovano però i muri e le porte sbarrate, respinti ed uccisi da politiche sempre più spietate. Mentre il Mediterraneo si trasforma sempre più nella tomba di migliaia di disperati, i governanti della fortezza Europa non si fanno scrupoli ad aumentare le misure repressive che sempre più colpiscono anche la povertà e chi decide di alzare la testa e di provare a mobilitarsi per la democrazia e la giustizia sociale, come sta accadendo nel nostro paese a seguito dell’approvazione del decreto Minniti – Orlando.

Purtroppo le risposte fin qui date non sono adeguate ad affrontare la situazione, non sono all’altezza dell’attacco messo in campo. Anche nella sinistra radicale aumentano le risposte per una soluzione nazionale, per una chiusura entro i propri confini, risposte che vanno proprio nel senso inverso rispetto a quello che il movimento operaio ha scelto quando ha voluto ed è riuscito ad affermare la propria forza.

Per un primo maggio anticapitalista e internazionalista

È per tutti questi motivi che oggi più che mai è necessario un primo maggio di lotta, un primo maggio che ritrovi lo spirito internazionalista e solidale che ha animato la classe lavoratrice della fine 800 e del 900. Oggi più che mai è necessario ricostruire una mobilitazione per il lavoro, per i diritti, per il salario e per la tutela dell’ambiente che unisca le tante vertenze aperte e isolate che si sono aperte in questi mesi, ultima la vicenda Alitalia. È necessario superare le divisioni e l’isolamento che ognuna di queste vertenze vive ed altrettanto necessario fare un salto di qualità che porti dalla difesa del proprio posto di lavoro, del proprio salario e della propria dignità alla difesa del lavoro, del salario e della dignità di tutti e tutte. È necessario ricostruire la solidarietà di classe a prescindere dal luogo di lavoro, dal colore della pelle, dalla religione, dalle origini e considerare i/le migranti nostri/e fratelli e sorelle. Oggi più che mai è necessario difendere la democrazia, a partire dai luoghi di lavoro dove i referendum vengono rispettati solo se sono espressione della volontà del padrone. I lavoratori e le lavoratrici di Alitalia ci stanno dicendo che ci sono gli spazi per opporsi e per dire NO. Oggi più che mai è necessaria una campagna per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario ed è necessario l’intervento dello stato per creare occupazione per tutti/e. Oggi più che mai è necessario un progetto politico che si ponga l’obiettivo di un forte cambiamento sociale e dell’abbattimento del capitalismo.

Questa è anche la strada migliore per contrastare il revisionismo storico e per evitare che pezzi di apparati e che partiti come il PD, ormai pienamente a servizio delle classi dominanti, si approprino di giornate come il primo maggio per trasformarle in vuota celebrazione in cui cercano di mascherare le loro gravissime responsabilità politiche della situazione attuale e sulla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori. Il primo maggio deve tornare ad essere una giornata di lotta dura contro i padroni, di esprimere la volontà della classe lavoratrice di combattere lo sfruttamento capitalista e di far avanzare il progetto di un’ altra società.

30 Aprile 2017 

dal sito Sinistra Anticapitalista

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VITE, LA 6° REPUBLIQUE! di Stefano Santarelli

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I risultati elettorali di ieri nel primo turno delle elezioni presidenziali francesi hanno evidenziato la crisi mortale della Quinta Repubblica. Lo dimostra proprio il fallimento elettorale dei due tradizionali partiti che negli ultimi quarant’anni hanno governato la Francia: i neogollisti de Les Républicaines e il Partito Socialista che non sono riusciti ad arrivare al ballottaggio. Ma se nel caso de Les Républicaines questa crisi è dovuta principalmente agli scandali legati alla corruzione e al nepotismo che hanno colpito il suo candidato François Fillon e che comunque ha fatto ottenere quasi il 20% dei voti al contrario i risultati del Partito Socialista sono stati un’autentica Waterloo con il 6,3% dei voti.

La sconfitta del suo candidato Benoît Hamon non è dovuta all’insipienza del personaggio ma si è voluto invece punire la politica imperialista e capitalista condotta dal Presidente Hollande il quale per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica non si è neanche candidato per la rielezione, oltretutto va segnalato anche il fatto che la sua presidenza è stata impotente di fronte agli attacchi terroristici condotti dall’Isis nel territorio francese. Bisogna ricordare che nelle ultime elezioni presidenziali del 2012 il PS di Hollande aveva preso il 28,63% dei voti, voti che oggi in buone parte sono andati al neo liberale Macron e alla France Insoumise di Mélanchon. A questo punto si apre per il Partito Socialista una crisi che probabilmente metterà fine alla sua stessa esistenza.

Sia pure a caldo è inutile negare l’evidenza: i risultati elettorali del primo turno rappresentano una pesante sconfitta per la sinistra nonostante il buon risultato de La France insoumise e del suo candidato Jean Luc Mélanchon. E’ da segnalare che le due liste trotskiste (Lutte Ouvrière e l’NPA) insieme hanno quasi preso il 2%, voti che potevano essere utili alla France insoumise per potere sperare di arrivare al ballottaggio. Certamente un bell’esempio di masochismo e di autoreferenzialità e vi è da domandarsi perché si è sciolta la vecchia Ligue Communiste Révolutionnaire che nel 2009 alle elezioni europee era in grado di prendere da sola il 5% dei voti per fare nascere il NPA che aveva ben altre ambizioni e come ho già segnalato in un mio vecchio articolo (La gauche perdu) questo profondo errore di analisi politica mette in discussione lo stesso scopo della nascita di questa formazione. Per la seconda volta nella storia della Quinta Repubblica, dopo la sconfitta del 2002 al primo turno del candidato socialista Lionel Jospin, la sinistra non riesce ad entrare nel ballottaggio per eleggere il Presidente della Repubblica.

Emmanuel Macron si è rivelato il vero vincitore di questo primo turno elettorale e probabilmente sarà il prossimo presidente francese, ma è da segnalare il fatto che la sua lista elettorale ( En marche!) non è un partito e potrebbe essere costretto per le prossime elezioni politiche a fare una lista comune con Les Républicaines per neutralizzare proprio il Front National che si è rivelato il suo vero avversario. Infatti Martine Le Pen si è rilevata una perfetta outsider e sarebbe sbagliato considerare il suo Front National come un partito fascista classico e giustamente Mélanchon non offre nessuna indicazione di voto per il secondo turno tra Macron e la Le Pen: per un vero uomo di sinistra sono due facce della stessa medaglia.

La parola d’ordine per una nuova repubblica francese non più caratterizzata dall’attuale monarchia presidenziale e basata su nuovi diritti sociali, personali ed ecologici che la France insoumise ha portato avanti in questa tornata elettorale è più che mai attuale e dovrà caratterizzare questa lista per le prossime elezioni del 11 e 18 giugno per l’Assemblea Nazionale. La battaglia per la Sesta Repubblica è soltanto agli inizi.

 

 

 

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Archiviato in NOUVEAU PARTI ANTICAPITALISTE, Santarelli Stefano

PERCHE’ DICO CHE STA CROLLANDO LA SECONDA REPUBBLICA? di Aldo Giannuli

 

 

Una serie di sintomi grandi e piccoli indicano come, ormai, il processo di sfaldamento della Seconda Repubblica sia in atto: il disfacimento del Pd, l’atonia del governo Gentiloni, il ritorno degli scandali che “puntano in alto” e che ormai coinvolgono non solo la politica ma anche il giornalismo (e si pensi al penosissimo caso del “Sole 24 ore” le cui azioni ormai valgono carta straccia), ancora una volta i magistrati vengono a far da becchini al sistema e i sondaggi segnalato la caduta rovinosa della fiducia dei cittadini in tutte le istituzioni. La macchina dello stato è in panne con ogni evidenza, e la politica è un motore fuso.

Ma tutto questi, appunto, sono i sintomi, non sono le cause del crollo. Il malessere profondo, lo abbiamo detto, è iniziato anni addietro, dal 2013 che, per la Seconda Repubblica, è stato quello che il 1987 è stato per la Prima. La rovina di un sistema politico non si verifica in un solo momento, ha sempre un processo che inizia molto prima e diventa più veloce alla fine.

Il 2013 ha segnato la rottura dell’equilibrio bipolare con l’irruzione sulla scena del M5s, poi la prima sentenza della Corte Costituzionale che metteva limiti al sistema elettorale maggioritario, quindi l’ondata di processi che sconvolgeva la testa di classifica delle imprese italiane, il conseguente scioglimento del “salotto buono”, eccetera.

Dopo la breve e poco seria parentesi renziana (che ha rallentato, ma assolutamente non bloccato la decadenza del sistema e del paese), le tensioni hanno preso nuovamente ad addensarsi per esplodere il 4 dicembre 2016.

Nessun sistema politico è eterno ed ha una durata più o meno lunga: ma ce ne sono di durata maggiore come l’Italia liberale (che durò dal 1861 al 1922, 51 anni) o la Prima Repubblica (1946-1993, 47 anni) e di breve come il fascismo (1922 al 1943, 21 anni, 23 se includiamo anche l’occupazione nazista), o la Seconda Repubblica (1993 2016, 23 anni più o meno quella del fascismo). Ovviamente la durata dice anche della solidità di un sistema e, se la durata è troppo breve, significa che c’erano fragilità costitutive che non hanno retto alla prova del tempo.


Peraltro, nessun regime crolla senza ragioni, e ciascuno ha le sue patologie finali. Nel caso della Seconda Repubblica siamo di fronte ad un crollo relativamente prematuro e questo rinvia alle ricerche delle cause più o meno prossime.

Circa quelle più vicine, è evidente l’impatto della crisi finanziaria e di quella, parzialmente intrecciata, dell’Unione Europea. Così come la Prima Repubblica non resistette all’impatto della globalizzazione neo liberista, oggi la Seconda non regge alla crisi di quell’ordinamento. La crisi finanziaria si è riversata sull’economia, con la perdita di milioni di posti di lavoro in tutto l’occidente, un abbassamento generalizzato di salari e consumi.

Ormai questo dura da quasi 10 anni e, salvo brevi e poco significativi saltelli che si cerca pietosamente di spacciare per ripresa, non si vede ancora la luce dell’uscita dal tunnel. E’ questa la principale ragione dell’esplosione dei cosiddetti populismi, che poi sono moti di protesta diversi fra loro, ma che puntano tutti ad una rivolta generalizzata anti sistema.

L’Italia ha pagato anche un prezzo più alto di altri e, dunque è abbastanza normale che il suo sistema politico sia squassato dalla tempesta più che altrove.

E questo ci fa capire che c’è un “difetto di progettazione” nella Seconda Repubblica. Essa sorse da una curiosa “emulsione populista liberista” per la quale, ad una retorica fondamentalmente ipo-politica (se non antipolitica) corrispondeva un disegno sostanzialmente elitario oligarchico, attraverso la liquidazione degli istituti della democrazia di massa e l’emergere di partiti-azienda raccolti intorno ad un leader più o meno carismatico. Questa pasticciata mescolanza ha funzionato per qualche tempo, ma, come ogni emulsione, alla fine ha separato “l’acqua dall’olio” e non funziona più.

L’inganno populista, che in qualche modo è stato tentato non solo in Italia, ha finito per ritorcersi contro i suoi stessi artefici, che oggi devono affrontare la rivolta populista che essi stessi hanno suscitato.

Il punto è che, piaccia o no, la democrazia ha messo radici, pur con tutte le sue carenze ed il popolo non rinuncia a dire la sua.

Un personaggio sostanzialmente estraneo alla democrazia come Giorgio Napolitano (come dimostra il suo giovanile stalinismo, il suo appoggio all’invasione sovietica dell’Ungheria, poi la sua lunga adesione alle regole disciplinari del Pci, infine, in età senile, la sua adesione toto corde all’elitarismo neoliberista) può anche pensare che ci siano materie come l’adesione agli organi internazionali da sottrarre alla decisione democratica, perché il popolo non è in grado di capire e che questo è stato l’errore di Cameron. Ma, per fortuna, è una posizione destinata ad infrangersi contro la solidità dei fatti.

Dunque, dissoltosi l’inganno dell’emulsione, è venuto fuori il carattere genuinamente antidemocratico ed oligarchico del neoliberismo, rivelato dall’urto della crisi. E questo sta travolgendo anche la costruzione iper tecnocratica della Ue. E con questa sta venendo meno un altro pilastro dell’ordine neoliberista e, di riflesso, del sistema politico italiano.

Al pettine stanno venendo, uno dietro l’altro, i nodi intrecciati in questo quarto di secolo ed a questo si aggiungono le specifiche ragioni italiane.


Non una delle promesse della Seconda Repubblica ha trovato attuazione: non il bipartitismo, non il governo di legislatura, non un ceto politico più corrispondente alla volontà popolare (anzi…), non la fine della corruzione, non la fine della grande criminalità organizzata, non un ordinamento più moderno e funzionale della pubblica amministrazione, non la riduzione del debito pubblico, non la riqualificazione della spesa pubblica e minore pressione fiscale, non servizi pubblici migliori e ci fermiamo qui. Nessuna delle “riforme” tentate ha prodotto gli esiti promessi e spesso ha comportato pesanti effetti controintuitivi.

Con un bilancio così negativo, c’è da meravigliarsi del come la protesta abbia tardato tanto. Ma adesso siamo al redde rationem.

16 Marzo 2017 

dal sito http://www.aldogiannuli.it/

La vignetta è del Maestro Mauro Biani

 

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LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE di Stefano Santarelli

 
 
 

Forse quello che chiamiamo follia non è altro che logica portato all’estremo”

Boileau-Narcejac

 
 
 

Indiscutibilmente Vertigo, 1958, (La donna che visse due volte) è il capolavoro assoluto di Alfred Hitchcock. Tratto dal romanzo D’entre les morts di Pierre Boileau e Thomas Narcejac la più celebre coppia di scrittori di Noir francesi, autori tra l’altro dei migliori apocrifi sul celebre ladro-gentiluomo Arsène Lupin, questo film testimonia la completa maturità raggiunta dal grande regista inglese.

Hitchcock in verità si era già innamorato di un precedente romanzo di questa coppia di giallisti francesi “Celle qui n’était plus”, ma il regista Henri-Georges Clouzot lo precedette e ne trasse il più celebre Noir francese “I diabolici” interpretato dalla grande Simone Signoret. Leggendo D’entre les morts Hitchcock ne compra subito i diritti spostando la vicenda dalla Francia della Seconda guerra mondiale alla contemporanea San Francisco.

Il titolo originale del film non era altro che la traduzione inglese del romanzo di Boileau-Narcejac “From Among the Dead ” (Tra i morti), ma venne poi trasformato dallo stesso regista in “Vertigo”. A mio avviso il titolo italiano (La donna che visse due volte) è migliore, per una volta tanto, a quello originale.

Rispetto al romanzo, a cui Vertigo è in fondo molto fedele a parte l’ambientazione della storia, la vera differenza risiede nel finale dove il protagonista strangola in un impeto di rabbia la povera Madeleine.


Hitchcock aveva in mente di scegliere come attrice protagonista la giovane Vera Miles, ma il suo stato di gravidanza impedì di utilizzarla, verrà poi però richiamata per una parte minore del suo celebre Psyco. Quindi affida a Kim Novak, una giovane star allora emergente, la parte e questa bellissima ma sicuramente non eccezionale attrice ci offre senza nessun dubbio la migliore interpretazione della sua carriera.

Quando uscì questo film non ottenne il successo sperato né da parte del pubblico né da parte della critica sia per il tema scabroso, sia per la rivelazione a metà del film del fatto che Madeleine e Judy sono la stessa persona e della mancanza inoltre del classico lieto fine caratteristico delle opere cinematografiche dell’epoca. Oltretutto James Stewart, uno degli attori preferiti da Hitchcock, interpretava non il consueto personaggio di buon americano con il quale lo spettatore si identificava facilmente e a cui era abituato, ma quello di uomo profondamente innamorato e contemporaneamente ossessionato da un profondo senso di colpa nei confronti di una donna di cui si credeva responsabile della sua morte.

 

Vertigo si svolge a San Francisco dove un ex detective, Scottie Ferguson (James Stewart), che ha dovuto abbandonare la polizia a causa delle sue vertigini che gli impediscono di svolgere un ruolo attivo viene contattato da un suo ex compagno di scuola, Gavin Elster, che gli da l’incarico di sorvegliare la ricca moglie Madeleine (Kim Novak) la quale crede di essere la reincarnazione della sua bisnonna Carlotta Valdés morta suicida a 26 anni, la stessa età di Madeleine.

Scottie pedina assiduamente Madeleine che si rivela una donna estremamente affascinante, enigmatica e misteriosa la quale si siede per delle ore in un museo di fronte al ritratto della sua bisnonna oltre a rendere omaggio alla sua tomba e quando la vede gettarsi nelle profonde acque del Golden Gate (il celebre ponte di San Francisco) la salva.

Scottie si innamora immediatamente e profondamente di Madeleine la quale gli confida di avere sognato una missione francescana che Scottie individua facilmente nella Missione di San Juan Baptista e ve la conduce. Ma qui Madeleine improvvisamente terrorizzata corre verso il campanile della chiesa mentre Scottie fatica a seguirla colto da una violenta crisi di vertigini e non può quindi impedire alla donna di lanciarsi nel vuoto.

La successiva inchiesta assolve Scottie da qualsiasi responsabilità legale, ma il giudice lo rimprovera aspramente per la sua vigliaccheria ed incapacità professionale.

Scottie cade quindi vittima di un violento complesso di colpa che gli provoca una grave crisi depressiva tanto da dovere essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Un anno dopo, incontra casualmente una donna che assomiglia straorinariamente a Madeleine anche se non ha le sue caratteristiche aristocratiche, si chiama Judy ed è una semplice commessa.

Hitchcock rivela subito allo spettatore che Judy è in realtà la vecchia amante di Gavin il quale volendosi liberare dalla vera moglie aveva architettato insieme a lei un finto suicidio gettando nel vuoto la vera Madeleine.

Scottie si accorge casualmente che una collana di Judy apparteneva in realtà alla bisnonna di Madeleine, Carlotta Valdés, e che quindi è caduto vittima di un vergognoso inganno.

Con uno stratagemma conduce Judy alla Missione di San Juan Baptista e salgono insieme sul campanile facendo rivivere la scena della morte di Madeleine. Scottie riesce a vincere quindi il suo terrore del vuoto e costringe Judy a confessare la sua colpa e a proclamare il suo reale amore per lui. E proprio nel momento in cui il film sembra concludersi con il classico happy end hollywoodiano un misteriosa ombra spaventa Judy la quale perde l’equilibrio e precipita dal campanile. Era solo una suora della missione ed anche in questo caso Scottie si è rivelato incapace di intervenire e salvare la donna amata.

 
 

 
 

Già dai titoli di testa lo spettatore si accorge di trovarsi di fronte ad un capolavoro. Emerge subito in un turbinio di colori l’inquadratura della bocca di Kim Novak che si sposta lentamente verso il suo occhio e nel centro della pupilla nasce il tema della spirale che contraddistingue il film: dallo chignon di Madeleine fino alla scala a chiocciola del campanile della Missione di San Juan Baptista. I titoli di testa sono ideati dal designer Saul Bass il quale collaborò con il celebre regista nei successivi due suoi film Intrigo internazionale e Psyco e che rimandano ad un altro celebre film di Hitchcock Io ti salverò dove le scene oniriche vennerò illustrate dal grande pittore Salvator Dalì. Hitchcock trascina quindi subito lo spettatore in un atmosfera da incubo che sintetizza la trama del film: dal tema del doppio fino alla vertigine che colpisce il suo protagonista. Un impatto emotivo che viene ampliato dalla straordinaria musica del suo compositore preferito: Bernard Herrmann.

 

E’ interessante riportare alcuni riflessioni di Hitchcock proprio su questo suo capolavoro:

“La prima inquadratura di un film è importante. Nella maggior parte dei casi, serve a introdurre lo spettatore nell’ambiente. Non so tuttavia se convenga mettere un’inquadratura importante all’inizio, perché spesso al cinema la gente chiacchera ancora alla fine del primo rullo, siede, finisce di sgranocchiare le noccioline. Conviene se possibile, sorprendere lo spettatore. Bisogna lottare a modo nostro contro le chiacchere e contro quelli che impiegano cinque minuti per sedersi. Ecco perché, dopo i titoli di testa, metto a volte inquadrature molto drammatiche. Come in La donna che visse due volte. Però molti buoni film hanni titoli di testa banalissimi. Spesso, finito il film, il pubblico ha dimenticato completamente l’inizio.

In La donna che visse due volte, James Stewart bacia Kim Novak appena prima che muoia, nella scuderia. Di regola si sarebbero dovuti usare primissimi piani. E’ il modo oggettivo di girare la scena: si vede che lui bacia. Non va. E’ fuori moda. Bisogna “sentire” il momento, non vedere la scena. Così ho usato un movimento ruotante. Il sentimento che la cinepresa sembra provare corrisponde al bacio. In tal modo consento allo spettatore di introdursi nella scena, per fare un ménage a tre. Non cambio mai inquadratura in una scena d’amore. Non bisogna che ci siano interruzioni, perché nella realtà non c’è interruzione. Tutto ciò che può fare l’uomo è guardare gli occhi della ragazza. Nel frattempo la sua mano sinistra è occupata altrove. Il piano unico permette di salvare il buon gusto.

Mi servo talvolta del grandangolare, che mi dà una prospettiva molto ampia. La finezza tecnica di La donna che visse due volte che piacque di più fu quella che rendeva così bene la sensazione della vertigine. Sono vent’anni che cerco di rendere quella sensazione sullo schermo. Nessuno ci è mai riuscito. Avevo tentato nel ’39 con Rebecca. Joan Fontaine comincia a svenire, e tutto si sfoca. Non andava bene, non era questo che volevo. Avrei voluto rendere l’impressione che lei provava, come se la stanza in cui si trovava si allontanasse molto lontano, sempre più lontano, come quando si è ubriachi. Quello che sopratutto mi interessa è il cambiamento di prospettiva all’interno del piano. Cominciare dalla visione normale, finire sulla visione anormale. Si è tentato, ma non si è ancora riusciti, perché l’immagine dà l’impressione di muoversi. Non era possibile. Quando si guarda un muro, il muro resta com’é. Non può diventare più grande, o più piccolo. Ecco perché non riuscii.” ( Hitchcock – Il castoro 1995).

 
 

 
 

Il maggiore omaggio a questo capolavoro di Hitchcock viene offerto dal regista italo-americano Brian De Palma con il suo Obsession (Complesso di colpa) – 1976.

De Palma insieme allo sceneggiatore Paul Schrader scrive una bellisima storia totalmente diversa da quella tratta dal romanzo di Boileau-Narcejac anche se nel riprendere il tema del doppio (non a caso doveva intitolarsi Déjà vu) e dell’ossessione e dell’amore tragico del protagonista nei confronti di una donna di cui sente il rimorso per la sua morte si può considerare virtualmente un remake perfettamente riuscito di Vertigo nonostante fosse un film indipendente e a basso costo.

 

La storia di Obsession inizia con il rapimento della moglie e della piccolissima figlia di Michael Courtland (Cliff Robertson), un ricco uomo d’affari di New Orleans. Seguendo il consiglio della polizia Courtland non paga il riscatto consegnando una valigietta piena di pezzi di carta con un rilevatore al suo interno. I rapinatori individuati dalla polizia riescono però a fuggire con gli ostaggi, ma durante l’inseguimento la macchina esplode distruggendo totalmente i corpi della moglie e della bambina.

Courtland non potendo sotterrare i suoi cari fa costruire un monumento che richiama la facciata della chiesa di San Miniato al Monte dove aveva incontrato per la prima volta sua moglie.

Quindici anni dopo quindi ritroviamo Courtland a Firenze che dietro consiglio del suo amico e socio Robert La Salle (John Lithgow) va ad assistere al restauro della chiesa di San Miniato al Monte e qui incontra una giovanissima restauratrice, Sara Portinari (Geneviève Bujold) che è la copia identica della moglie. Courtland si innamora subito della giovanissima Sara e come lo Scottie interpretato da James Stewart anche lui vuole trasformare Sara nella moglie perduta.

Dopo aver portato Sara negli Stati Uniti la sposa subito, ma durante la prima notte di nozze Sara viene rapita con un messaggio dei rapitori identico a quello di quindici anni prima e Courtland decide questa volta di obbedire alle loro richieste. Prende il denaro contante grazie a La Salle che però si intesta tutta la società e come allora Courtland lancia, su ordine dei rapitori, da una barca una valigietta che Sara raccoglie per scoprire che come quindici anni prima questa contiene soltanto carta.

A questo punto del film si apprende che dietro il nome di Sara Portinari si nasconde in realtà la figlia di Courtland che sopravissuta al rapimento organizzato proprio dal suo socio e amico La Salle vuole vendicarsi del padre che allora non l’aveva salvata.

Courtland riesce a smascherare il complotto ed uccide La Salle, ma vuole anche punire Sara la quale si sta dirigendo all’aereoporto per ritornare in Italia.

Ma quando Sara si accorge, dopo aver tentato il suicidio, della venuta di Courtland si alza dalla sedia a rotelle spinta da un inserviente e si getta tra le braccie del padre che solo a questo punto si rende conto della realtà.

 
 

Geneviève Bujold e Cliff Robertson

 
 

Come si vede la trama del film di De Palma apparentemente non ha nulla a che spartire con quella di Vertigo, ma in realtà ne costituisce un vero remake grazie anche all’ipnotica musica di Bernard Herrmann, con la quale ottenne la nomination all’Oscar, e che in alcuni punti riprende proprio il tema di Vertigo.

Il film di De Palma sembra proprio girato da Hitchcock: dall’uso dello zoom alle inquadrature, ma cosa più importante e che Obsession come Vertigo è un apologo sul tema della realtà/apparenza,

infatti nulla è come sembra in questi due film. Sandra non ama Courtland ma al contrario vuole vendicarsi del padre; il migliore amico di Courtland, La Salle, in realtà è il suo peggior nemico.

Abbiamo poi il culto necrofilo che caratterizza i personaggi interpretati da Robertson e da Stewart che innescano il tema della reincarnazione.

Uno degli aspetti più importanti del film di De Palma e un susseguirsi di citazioni che rendono omaggio al cinema di Hitchcock. Dall’effetto del déjà vu quando Sara osserva il ritratto della madre che rimanda non solo alla scena del museo dove Madeleine è in contemplazione del quadro della sua bisnonna, ma anche ad un altro celebre film di Hitchcock dove Joan Fontaine osserva il dipinto di Rebecca e la porta sbarrata che Sara incontra nella casa di Courtland con la scena della chiave rimanda non solo a Rebecca ma all’altrettanto celebre Notorius. Mentre il flashback di Sandra bambina ci riporta invece alla Marnie interpretata da Tippi Hedren, e quando Courtland uccide con un paio di forbici il suo socio responsabile della morte della moglie e del rapimento della figlia questo è un chiaro omaggio ad un’altro capolavoro di Hitchcock: Delitto perfetto.

Obsession non è soltanto un omaggio perfettamente riuscito a Hitchcock, ma costituisce uno dei migliori film del regista italo-americano e questo anche grazie alla scelta degli attori.

Cliff Robertson infatti era un attore tipicamente americano con uno stile tradizionale paragonabile a Cary Grant o a James Stewart. Ma la scelta sicuramente vincente fu quella di scritturare la giovanissima attrice franco-canadese Genèvieve Bujold che riuscì perfettamente a recitare sia nei ruoli della madre che della figlia. E nel finale del film De Palma con una scelta coraggiosa fa interpretare alla Bujold la parte della bambina quando rivive con un flashback il primo rapimento proprio sfruttando l’aria infantile dell’attrice e con una ripresa geniale sposta verso l’alto la cinepresa zoomando poi su di lei alterandone così la prospettiva e dando l’impressione che il suo corpo da adulta si trasformi in un corpo da bambina.

 
 

 
 

Il film di De Palma tocca in modo molto lieve il delicato tema dell’incesto durante la prima notte di nozze facendolo sembrare solo un sogno di Cortland, ma nonostante questo il film ebbe tutta una serie di problemi durante le proiezioni.

 Ma come ci ricorda Hitchcock in fondo il tema centrale di Vertigo, come poi anche di Obsession, è la storia di una ossessione amorosa che vuole sconfiggere la morte: “per dirlo in modo semplice, quest’uomo vuole andare a letto con una morta, è pura necrofilia”.
 
 

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